Khalida Jarrar, una donna di Palestina. Il suo coraggio e l'infamia dei carcerieri
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Khalida Jarrar, una donna di Palestina. Il suo coraggio e l'infamia dei carcerieri

Militante palestinese è nemme carceri israeliane ne ha scritto su Haaretz uno dei più autorevoli e coraggiosi giornalisti israeliani: Gideon Levy.

Khalida Jarrar
Khalida Jarrar
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Marzo 2021 - 12.01


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Questa è la storia di una donna coraggiosa. Della “Navalny” di Palestina. Il suo nome è Khalida Jarrar.

Per dar conto della sua storia, partiamo da uno scritto, per Haaretz,  di uno dei più autorevoli e coraggiosi giornalisti israeliani: Gideon Levy.

Una storia esemplare

“Immaginatevi: la parlamentare Merav Michaeli è stata condannata a due anni di prigione per attività politiche a favore dei diritti delle donne e per essere di sinistra. È stata anche condannata per “appartenenza a un’organizzazione vietata”, forse un riferimento ai suoi giorni in Haziriya, un gruppo semi-sotterraneo di esperti di vino che si incontrava alla fine degli anni ’90 per degustazioni alla cieca.

Il mondo sarebbe in rivolta per il suo arresto, così come gli israeliani: un parlamentare in prigione per attività politica? Israele rinchiude i legislatori? Prigionieri politici nell’unica democrazia del Medio Oriente? L’israeliano Alexei Navalny? L’Unione europea annuncerebbe sanzioni contro Israele il giorno stesso. Gli Stati Uniti si unirebbero. È quello che hanno fatto la settimana scorsa alla debole Russia. Ma Israele la superpotenza può fare quello che vuole, può anche imprigionare un oppositore del regime. Michaeli non è stata arrestata, naturalmente, né condannata, né mandata in prigione, ma Khalida Jarrar sì. Le due donne hanno molto in comune. Sono entrambe sulla cinquantina, entrambe parlamentari che hanno vinto i loro seggi in elezioni democratiche, entrambe sono laiche di sinistra che hanno dedicato gran parte della loro vita alla lotta femminista. Vivono a circa un’ora di macchina l’una dall’altra, ma non si sono mai incontrati e probabilmente non lo faranno mai. Se lo facessero, vedrebbero che sono d’accordo su molte cose, certamente prima che Michaeli si identificasse come “Rabinista”. Entrambi vivono sotto il regime sionista di Israele, uno è d’accordo con esso con entusiasmo, l’altra è una convinta oppositrice. Jarrar è molto più coraggiosa di Michaeli, ma questo paragone è ingiusto: Michaeli è un membro ebreo della Knesset che ha sia l’immunità dalla persecuzione che uno Stato. Jarrar è un membro del parlamento palestinese, il Consiglio legislativo palestinese, senza immunità, protezione o uno stato, che vive sotto una violenta occupazione militare – una situazione che richiede da lei grande coraggio e sacrificio nella sua lotta. Israele rinchiude i legislatori, se non i membri della Knesset. Israele ha centinaia di prigionieri politici, anche se sono tutti palestinesi. Ora lo Stato ammette la loro esistenza: Jarrar è stata condannata solo per la sua attività politica. Il giudice e l’accusa lo hanno ammesso apertamente. Si sono lamentati di “difficoltà probatorie”, e invece di rilasciarla immediatamente e risarcirla per il falso arresto, le è stata inflitta una pena di 24 mesi – dopo essere stata incarcerata per diversi anni, alcuni dei quali senza essere stata accusata di un crimine. Jarrar è un’oppositrice del regime. Navalny sta scontando la sua pena nella colonia penale n. 2 nella regione di Vladimir, Jarrar nella prigione di Damon. Suo marito non la vede da ottobre.

 

La totale assenza di solidarietà tra i parlamentari israeliani per la sorte dei loro pari non è sorprendente, ma è vergognosa. Solo i legislatori stranieri hanno dimostrato solidarietà: Nkosi Zwelivelile “Mandla” Mandela, capo del Consiglio tradizionale di Mvezo, nipote dell’ex presidente sudafricano Nelson Mandela e deputato all’Assemblea nazionale del Sudafrica, ha scritto su WhatsApp venerdì: “Liberate Khalida Jarrar! … (Lei) è un eroe ai nostri occhi e un modello per gli attivisti di tutto il mondo. … Giù le mani da Khalida Jarrar!!!” Ancora più vergognoso è il comportamento servile dei media israeliani Quando la Jarrar è stata arrestata, il titolo dello Yedioth Ahronoth urlava: “Lo Shin Bet arresta la donna responsabile della morte di Rina Shnerb”. In Israele, anche questo è considerato giornalismo. Jarrar non ha niente a che fare con l’omicidio o con qualsiasi altro atto violento.

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Quando Israele esplode per qualsiasi crepa nella sua parziale democrazia, dovremmo ricordarci anche di questo: È un paese che rinchiude i detenuti senza processo e imprigiona i legislatori per la loro attività politica. Quando Israele muove cielo e terra per quella che chiama l’interferenza dell’Autorità Palestinese nelle elezioni per la Knesset, anche questo dovrebbe essere ricordato: Israele ha iniziato una campagna di arresti politici in vista delle elezioni previste per il Consiglio legislativo palestinese alla fine di quest’anno, e la scandalosa incarcerazione di Jarrar potrebbe esserne influenzata. Quando il giudice militare, il colonnello Yair Lahan, ha condannato Jarrar per “aver ricoperto una carica in un’organizzazione vietata”, ha anche condannato lo Stato d’Israele ad essere un paese completamente non democratico”, conclude Levy.

 

Parla Khalida

“La prigione non è solo un luogo fatto di alte mura, filo spinato e piccole celle soffocanti con pesanti porte di ferro”, racconta nel suo contributo al libro These Chains Will Be Broken: Palestinian Stories of Struggle and Defiance in Israeli Prisons. Secondo Jarrar – scrive Elisabetta Moro su ELLE – “il carcere va analizzato dal punto di vista umano con attenzione alle vite di coloro che vengono rinchiusi. Il carcere è fatto di storie di persone reali, sofferenze quotidiane e lotte contro le guardie carcerarie e l’amministrazione”, racconta. Parla anche dei soprusi da parte della polizia penitenziaria e delle condizioni critiche in cui vivono le detenute, costrette a passare la giornata in celle talmente umide da causare continui (e pericolosi) cortocircuiti all’impianto elettrico. Jarrar, però, nei periodi di reclusione, non è mai rimasta passiva, ma ha sempre continuato a far valere i propri ideali con i (pochi) mezzi a disposizione. Nel 2019, ad esempio, dopo che le autorità carcerarie avevano negato ad alcune ragazze minorenni la possibilità di avere un insegnante, si è organizzata con le altre donne in modo da fornire delle lezioni all’interno del carcere per dare modo a chi volesse di continuare a studiare. “La prigione è l’arte di esplorare le possibilità”, spiega infatti, “è una scuola che ti addestra per risolvere le sfide quotidiane usando i mezzi più semplici e creativi, che si tratti di preparazione del cibo, rammendare vecchi vestiti o trovare un terreno comune in modo che tutti possiamo sopravvivere e sopravvivere insieme”. L’attivista racconta di aver creato legami molto forti con le donne palestinesi incontrate in carcere e di essere spesso riuscita anche grazie a loro (e ai momenti felici passati insieme nonostante tutto) a superare i giorni più difficili, quando angoscia e tristezza sembrano non lasciare tregua…. Jarrar  sembra possedere una forza d’animo che va ben oltre le pareti del carcere e degli ideali così forti da superare qualsiasi muro. Lottare per i propri valori nonostante le enormi difficoltà, a prescindere dalla condizione in cui ci si ritrova: questo è ciò che, al di là di tutto, la sua storia ci lascia.”

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Lettera dal carcere 

Di seguito pubblichiamo ampi stralci della letta di Khalida Jarrar dal carcere al Festival Palestine Writers (17 dicembre 2020), tradotta dall’Associazione di amicizia Italo-Palestinese.

“Dalla prigione di Damon in cima al Monte Carmelo ad Haifa vi mando un saluto da parte mia e da parte di altre 40 combattenti per la libertà, compagne detenute nelle prigioni israeliane. Ed estendiamo il nostro saluto a tutti gli scrittori, studiosi, intellettuali ed artisti che dicono la verità e chiedono libertà e giustizia per tutti coloro che si battono per il diritto del popolo all’autodeterminazione e al contrasto della dominazione coloniale e razzista.In questa occasione permettetemi anche di inviare il nostro saluto e sostegno a tutti gli scrittori arabi, studiosi ed artisti che rifiutano la normalizzazione con il sistema coloniale degli insediamenti e che hanno rifiutato di accettare gli accordi di normalizzazione dell’entità Sionista con gli Emirati, il Bahrein e il Sudan.

Sono queste prese di posizione che costituiscono il legame vero tra il nostro popolo e rafforzano noi che siamo in prigione. Anche se fisicamente siamo imprigionate tra inferriate e celle, le nostre anime restano libere e si librano nel cielo della Palestina e del mondo. Malgrado la durezza dell’occupazione israeliana e delle misure punitive che vengono imposte, la nostra voce libera continuerà ad esprimersi a nome del nostro popolo che ha sofferto orrende catastrofi, sfollamenti, occupazione e incarcerazioni. E continueremo a far sapere al mondo della forte volontà palestinese di lottare senza sosta per il rifiuto del colonialismo in tutte le sue forme. Noi lavoriamo per realizzare e consolidare i valori umani e lottiamo per ottenere la liberazione economica e sociale per le popolazioni del mondo intero”.

Letteratura e cultura in carcere

Noi mandiamo un saluto, in questa fase finale del Festival, ad Angela Davis, ai colleghi ed amici Hanan Ashrawi, Richard Falk, all’amatissima Susan Abulhawa, e a Bill V. Mullen.

E come nostro contributo a questa conferenza vorremmo tentare di comunicarvi le nostre attuali esperienze riguardo a letteratura e cultura mentre siamo nelle prigioni israeliane. La cosa più importante qui sono i libri. I libri costituiscono la base della vita in prigione. Essi mantengono il nostro equilibrio fisico e morale di combattenti per la libertà e che considerano la loro detenzione come parte della resistenza contro l’occupazione coloniale della Palestina. I libri hanno un ruolo fondamentale nel rapporto individuale di ciascuno con le autorità carcerarie. E ciò avviene quando i nostri carcerieri tentano di spogliarci della nostra umanità e tenerci isolate dal mondo esterno. Per le prigioniere si tratta di una “rivoluzione culturale” attarverso la lettura, la formazione e la discussione.

I prigionieri politici palestinesi incontrano molti ostacoli nell’accesso ai libri. I libri non ci arrivano nei tempi previsti in quanto sono sottoposti a controllo o vengono requisiti quando portati da un familiare. In teoria ogni prigioniera è autorizzata a ricevere due libri al mese. Però i libri sono soggetti a controlli che comportano spesso il rifiuto dell’amministrazione della prigione con il pretesto dell’”incitamento”(=incitamento alla ribellione, NdR). Privare le detenute dell’accesso ai libri è utilizzato come punizione, e alle prigioniere può venire impedito di ricevere libri per due o tre mesi, così come è successo a me nel 20217. Anche la modesta biblioteca usata dalle detenute è soggetta ad ispezioni costanti con la possibilità da parte delle guardie di requisire qualunque libro che sia stato introdotto a loro insaputa. Ciò induce le carcerate a modi diversi di proteggere i libri che sono a rischio di requisizione.

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Libri amati e libri vietati

Le detenute riescono in questo modo a riuscire a fare entrare alcuni grandi libri. In aggiunta a testi di filosofia e storia, sono entrati libri di Ghassan Kanafani, Ibrahim Nasr-Allah e Suzan Abu-Alhawa. Il racconto “La Madre” di Gorky ha costituito un conforto per le prigioniere private della loro madri. I lavori di Mahmoud Darwish, Elif Shafak “Le 40 regole dell’Amore”, “I Miserabili” di Victor Hugo, Nawal El Saadawi, Sahar Khalifeh, Edward Said, Angela Davis e Albert Camus sono stati tra i libri che abbiamo amato di più e che sono riusciti a sfuggire alle ispezioni.

Tuttavia libri come “Scritto sotto la forca” di Julius Fucik e i “Quaderni dal carcere” di Gramsci non si è mai riusciti a sottrarli alle attenzioni dei guardiani. In realtà nessuno dei libri di Gramsci è permesso l’accesso, per una posizione particolarmente ostile a Gramsci da parte delle autorità di occupazione.

Libri che sono esposti nelle librerie di tutto il mondo sono soggetti a censura e requisizione da parte delle autorità carcerarie di occupazione israeliane se tentiamo di accedervi: i libri qui vengono arrestati così come la nostra gente”.

Misure punitive ed oppressive

L’accesso ai libri non è l’unica lotta che devono affrontare i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane. Cercherò di farvi conosce aspetti della nostra vita, ma tenete presente però che è nostra volontà quella di rimanere forti come l’acciaio.

Le autorità carcerarie israeliane impongono quotidianamente misure oppressive, in particolar e attraverso l’isolamento. Ci privano anche delle visite familiari, impediscono l’ingresso di libri culturali e letterari e vietano completamente i libri educativi. Inoltre vietano il canto in tutte le sue forme. Le canzoni rivoluzionarie e anche quelle popolari sono bandite.

Inoltre, non ci è consentito avere accesso a più di una radio. La radio è un’importante fonte di informazioni che ci collega al mondo esterno trasmettendo notizie dal mondo. Ma la radio è più di questo per noi, è uno strumento che ci collega con le nostre famiglie e amici mentre chiamano e inviano messaggi attraverso i vari programmi radiofonici palestinesi.

Le autorità carcerarie israeliane inoltre non consentono alcun tipo di riunione o riunione. Puniscono continuamente le donne detenute riducendo gli articoli che possono essere acquistati dallo “Spaccio”, che è l’unico “negozio” disponibile.

I prigionieri sono continuamente seguiti attraverso il controllo delle telecamere di sorveglianza che circondano ogni angolo della prigione, incluso il piazzale (Al-Forah). Questo piazzale è dove le donne detenute possono stare al sole per cinque ore intermittenti ogni giorno fuori dalle loro celle chiuse e dalle finestre sbarrate. Le nostre celle sono inoltre soggette a controlli rigorosi e provocatori a tutte le ore della notte o del giorno alla ricerca di un qualsiasi pezzo di carta su cui sia stato scritto qualcosa. Potete immaginare quanto sia stato difficile per me riuscire a farvi pervenire questo messaggio.

Tutto quanto sopra e altro ci costringe a utilizzare vari metodi per contrastare queste politiche. Vi sono piccole cose e oggetti che possono sembrare banali fuori dal carcere, ma rivestono una grande importanza per noi detenute all’interno. Ad esempio, la penna è importante, la carta è importante e i libri sono considerati un tesoro. Tutto ciò è quello che ci sostiene per la nostra sopravvivenza, la nostra maturazione, la nostra lotta contro l’occupazione”.

Questa è Khalida Jarrar. Queste sono le donne palestinesi. 

 

 

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