Palestina, dollari e tribunali: è la pulizia territoriale "soft". Un furto legalizzato
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Palestina, dollari e tribunali: è la pulizia territoriale "soft". Un furto legalizzato

Usare il denaro e i tribunali al posto delle ruspe e delle armi. E’ il modo più “soft” per raggiungere il medesimo obiettivo: colonizzare Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania)

L'insediamento di Gush Etzion, nella Valle del Giordano
L'insediamento di Gush Etzion, nella Valle del Giordano
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

16 Febbraio 2021 - 15.38


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Usare il denaro e i tribunali al posto delle ruspe e delle armi. E’ il modo più “soft” per raggiungere il medesimo obiettivo: colonizzare Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania). E’ l’altra faccia, quella “rispettabile” della stessa, criminale medaglia: quella dell’annientamento di un popolo attraverso l’espropriazione della sua terra.

Il crimine “soft”

La terra dei palestinesi. Terra significa vita, radici, cultura, identità di un popolo. Terra è spazio e tempo. E’ memoria e al tempo stesso futuro. Sulla terra si edifica uno Stato che, altrimenti, è finzione. Per comprendere appieno cosa sta accadendo, nel silenzio della comunità internazionale e della stampa mainstream, un importante contributo lo offre Odeh Bisharat in questo scritto per Haaretz: “’ Chiunque pensi che a un abitante palestinese dei territori occupati importi molto se viene sradicato dall’estremista Itamar Ben-Gvir o dal Fondo Nazionale Ebraico, fiore all’occhiello della visione sionista, si sbaglia. Il poeta iracheno Muthaffar al-Nawab ha scritto: ‘La pecora non si cura della forma della lama nel macello’. Qual è la differenza tra il “riscattare la terra” del JNF e il “o noi o loro – espellere il nemico arabo” di Ben-Gvir? In effetti, il primo slogan è più pericoloso perché la richiesta di espulsione è avvolta in un pacchetto scintillante – ‘redenzione’. Ma in realtà si tratta di riscattare la terra dalla sua anima, gli arabi. Così la terra che ci rimarrà sarà senza anima, i cui nuovi abitanti instillano la paura nella società israeliana. Guarda e vedi chi muove le ruote dello stato nei corridoi del potere. Ma i responsabili della JNF non hanno il senso della giustizia naturale. Al momento il loro obiettivo è ‘riscattare’ le terre intorno agli insediamenti e passarle alle mani carezzevoli dei bulldozer dei coloni, che rovineranno la terra, spianeranno le colline e feriranno le montagne. Quando la redenzione dei territori occupati sarà completa, possiamo presumere che l’operazione proseguirà al galoppo verso la Giordania. È inconcepibile che il JNF, con tutto il denaro che ha nelle sue casse, venga smantellato. Il cinismo del JNF non fa che crescere: Chiede agli ebrei del mondo di contribuire alla forestazione del Negev, e all’ombra promessa del verde gli arabi vengono espulsi dalla loro terra. È interessante che anche 70 anni dopo la creazione dello stato, la redenzione sia ancora condotta clandestinamente.

Ho pensato ingenuamente che fosse giunto il momento di gioire e rallegrarsi per ogni particella di terra che viene riscattata. Si scopre che i redentori sanno nel profondo che il loro lavoro è contaminato. Le loro azioni contravvengono al diritto internazionale e alle leggi della morale, perché sotto la bella parola ‘redenzione’ c’è un’esplosione di contaminazione chiamata ‘sradicamento’. E poi sorgono le agghiaccianti parole ‘pulizia etnica’ E se sradicare un albero evoca dolore tra la gente sana di mente, a maggior ragione lo fa quando vengono sradicati dei nativi. Quando Danny Atar era direttore del JNF, fino a pochi mesi fa, l’organizzazione ha cercato di acquistare (scusate, di riscattare) terreni nella Valle del Giordano al costo di 100 milioni di shekel (30,7 milioni di dollari), senza nemmeno ottenere l’approvazione del consiglio di amministrazione; il rappresentante del Movimento di Riforma nel consiglio ha bloccato la mossa. Cito questo perché Atar è la carne e il sangue del movimento laburista ‘moderat’. Se mi si chiede chi preferisco al timone della JNF – Ben-Gvir o Atar – dirò che preferisco qualcuno che lavora pubblicamente senza addolcire la pillola, e non qualcuno che si nasconde dietro parole imbiancate; è più facile esporre il suo vero volto e combattere le sue azioni. Il clamore contro l’accordo sul surplus di voti tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il partito di Ben-Gvir è una cosa sana. Ma è importante dire che qui abbiamo a che fare solo con il frutto dell’albero, non con le sue radici. L’albero velenoso – l’occupazione, la presa della terra, l’espulsione – continua a crescere, a svilupparsi e ad essere sostenuto dal mainstream in Israele. Notiamo solo che in condizioni di crisi, il frutto dell’albero velenoso può avvelenare altre parti della società, non solo le parti arabe. Il processo al primo ministro è una crisi di governo. Quando tutte le muse hanno taciuto, e soprattutto la Corte Suprema, che ha legittimato un individuo accusato di reati penali alla guida del paese, l’istinto di sopravvivenza degli abitanti della casa di Balfour Street del primo ministro è capace di tutto. Tra le altre cose, unirsi con il leader di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che è il figlio legittimo dell’ingordigia del movimento laburista, che con le sue azioni, per esempio il Fondo Nazionale Ebraico, ha aperto la strada alla crescita di una mutazione chiamata Otzma Yehudit – Potere Ebraico – rifugiandosi sotto l’ala di una mutazione più pericolosa chiamata Netanyahu. E così, con il clamore – che purtroppo non è abbastanza forte – contro l’accordo con Ben-Gvir, è importante prosciugare le sorgenti della dottrina razzista, anche sotto i suoi bei nomi”, conclude Bisharat.

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Di cosa si tratta

A ricostruire gli eventi sono, in un documentato report sul giornale progressista di Tel Aviv, Hagan Shezaf e Hagai Amit. “La direzione del Fondo Nazionale Ebraico ha approvato domenica una proposta per cambiare ufficialmente la politica dell’organizzazione in modo da permettere all’organizzazione di espandere l’acquisto di terreni in Cisgiordania a beneficio dell’impresa di insediamento ebraico. La proposta è ancora in attesa dell’approvazione del consiglio di amministrazione dell’organizzazione, che deciderà sulla questione solo dopo le elezioni del 23 marzo in Israele. La scelta di rinviare la decisione del consiglio di amministrazione ha fatto seguito alle minacce di dimissioni di diversi membri della dirigenza del JNF, oltre alla richiesta del ministro della Difesa Benny Gantz.  Secondo la proposta, che ha registrato le critiche del Dipartimento di Stato americano, il JNF acquisterebbe terreni di proprietà privata in Cisgiordania, con priorità ai terreni all’interno degli insediamenti, ai terreni dove si prevede che la costruzione incontri pochi ostacoli e ai terreni adiacenti agli insediamenti esistenti che possono essere usati per la loro espansione.

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Poco tempo prima dell’inizio della discussione sulla proposta, il ministro della Difesa Benny Gantz ha scritto una lettera al presidente della JNF Avraham Duvdevani chiedendo un ritardo nella decisione del consiglio finché l’establishment della sicurezza e l’amministrazione civile israeliana in Cisgiordania possano tenere consultazioni sulla questione. Gantz ha scritto che crede che la decisione sia ‘estremamente delicata’ e che possa avere conseguenze a livello nazionale, in relazione sia al rapporto di Israele con l’amministrazione Biden negli Stati Uniti che all’ebraismo della diaspora.

In una delibera separata, anch’essa soggetta all’approvazione del consiglio, la direzione del JNF ha deciso di stanziare 38 milioni di shekel (11,7 milioni di dollari) per l’acquisto di terreni in Cisgiordania. Il JNF, fondato nel 1901 per acquisire e sviluppare terreni nell’Israele pre-statale per uso ebraico, ha operato ufficiosamente in Cisgiordania per anni, ma lo ha fatto attraverso una filiale.

La proposta darebbe priorità ai terreni nel blocco di insediamento di Gush Etzion, nella Valle del Giordano, nelle aree intorno a Gerusalemme, nella regione di Binyamin a nord di Gerusalemme, nelle colline di Hebron sud e nelle aree adiacenti al confine pre-1967. La proposta afferma che nessuna terra verrebbe acquistata nelle aree di Nablus e Jenin.

Secondo la proposta, il JNF, che è conosciuto in ebraico come Keren Kayemeth LeIsrael, continuerebbe con il rimboschimento delle aree aperte in Cisgiordania ‘al fine di sostenere la terra’, in coordinamento con l’Amministrazione Civile, l’agenzia amministrativa del governo in Cisgiordania. Si basa su un parere legale emesso per il JNF nel settembre del 2019 dal giudice Yosef Alon, che afferma che il JNF può acquistare terreni in Cisgiordania che sono ‘destinati all’insediamento ebraico’.

La proposta è stata fornita ai membri del consiglio di amministrazione su un disco fisico piuttosto che in remoto tramite computer, ed è stato chiesto loro di mantenerla riservata.

Interrogato sulla questione, il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price ha detto ‘crediamo che sia fondamentale astenersi da passi unilaterali che esacerbano le tensioni e che minano gli sforzi per far avanzare una soluzione negoziata a due stati”.

Price ha aggiunto che ‘i passi unilaterali potrebbero includere l’annessione di un territorio, l’attività di insediamento, le demolizioni, l’incitamento alla violenza, la fornitura di compensazione per gli individui in prigione per atti di terrorismo. Abbiamo continuato a sottolineare che è fondamentale astenersi da tutte queste attività’.

L’opposizione dell’ebraismo democratico americano

“Ci siamo opposti a lungo alla proliferazione degli insediamenti perché mettono in pericolo la possibilità di una soluzione a due stati”, ha detto il rabbino Rick Jacobs, presidente dell’Unione per l’ebraismo riformato, in una dichiarazione. “Amiamo e sosteniamo lo Stato ebraico e democratico di Israele, ed è per questo che continueremo ad opporci con forza alle politiche che minano la sicurezza e il carattere morale della nostra patria ebraica”.

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Anche l’organizzazione Americans for Peace Now (APN) si è fortemente opposta al piano, per la ragione che potrebbe “rafforzare significativamente l’impresa di insediamento israeliana”.

“Non resteremo in silenzio mentre il Fondo Nazionale Ebraico, un’agenzia creata per costruire lo Stato d’Israele, serve come strumento per distruggere le prospettive di costruzione di uno stato palestinese, negando così l’autodeterminazione palestinese e minando il futuro di Israele come democrazia”, ha detto Hadar Susskind, presidente e Ceo di APN.

Sulla stessa lunghezza d’onda critica è T’ruah, un gruppo per i diritti umani di oltre 2.000 rabbini. Il direttore esecutivo del gruppo, il rabbino Jill Jacobs, ha detto: “Qualsiasi trasferimento di denaro usato per espandere gli insediamenti in Cisgiordania, che sono illegali secondo il diritto internazionale, ignora palesemente i diritti fondamentali dei palestinesi che vivono sotto occupazione e mina le prospettive di pace.” “I dirigenti della JNF, ora composti da estremisti di destra favorevoli agli insediamenti, sapevano che questa proposta politica non sarebbe stata accolta dal pubblico ebraico americano, ed è per questo che hanno cercato di tenerla segreta”, ha aggiunto.

Critiche pungenti, che non sembrano però scuotere minimamente la ferrea determinazione della maggioranza del gruppo dirigente del JNF nel portare avanti la pulizia etnica “soft” in Palestina. D’altro canto, costoro sanno bene di avere il sostegno incondizionato delle destre israeliane e dell’uomo che da oltre un decennio le rappresenta ai vertici del potere: il primo ministro Benjamin Netanyahu. Orfano del grande amico e sodale della Casa Bianca, l’ex presidente Donald Trump, Netanyahu cerca di giocare d’anticipo rispetto alla nuova amministrazione Usa, impegnata sul fronte interno (lotta al Covid, campagna di vaccinazioni, sostegno al mondo del lavoro e delle imprese), portando avanti la politica di cui è un indiscutibile maestro: quella dei fatti compiuti. La pulizia etnica “soft” orchestra dal JNF è una manna elettorale per Netanyahu, in vista delle elezioni del 23 marzo, le quarte in due anni. Per “Bibi” significa tradurre in politica il classico “due piccioni con una fava”: sviluppare gli insediamenti, facendo man bassa dei voti dei coloni, e infliggere un colpo letale alla già moribonda soluzione a due stati. 

Il tutto nella più totale impunità internazionale. Alla faccia delle risoluzioni Onu, degli ammonimenti che vengono da Washington, delle balbettanti critiche dell’Europa. Netanyahu va avanti per la sua strada, costellata di pratiche illegali che però nessuno ha il coraggio di sanzionare (sanzioni, non parole al vento). E’ questo senso di impunibilità che pervade ogni atto del premier più longevo nella storia d’Israele. Più che da primo ministro, agisce come un “re”, al di sopra di tutto e di tutti. A fargli difetto non è certo il cinismo e l’abilità di manovra. Quanto ai soldi, non c’è problema. Ci pensa l’JNF. 

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