Esercito e coloni: la tenaglia mortale in Cisgiordania
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Esercito e coloni: la tenaglia mortale in Cisgiordania

Globalist ha raccontato con articoli, reportage e interviste, cosa sia il regime di apartheid nei Territori. Ora ci torniamo attraverso l’editoriale di Haaretz

Soldato israeliano
Soldato israeliano
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

7 Febbraio 2021 - 16.52


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Una morsa asfissiante: l’esercito da un lato, i coloni in armi dall’altra. In mezzo, i palestinesi della Cisgiordania. 

Globalist ha raccontato con articoli, reportage e interviste, cosa sia il regime di apartheid nei Territori. Ma l’editoriale di Haaretz, con l’autorevolezza di essere espressione del giornale e non di una delle sue firme, rafforza e drammatizza una lettura che fonda le sue basi nella realtà e non in una narrazione di parte.

La denuncia di Haaretz

 “Il Consiglio regionale del Monte Hebron ha accolto con favore l’esercitazione tenuta questa settimana dalle Forze di difesa israeliane nei villaggi palestinesi nel sud della Cisgiordania e nei dintorni. In una dichiarazione il consiglio, che governa gli insediamenti ebraici della zona, ha detto che l’esercitazione era ‘uno dei modi per aumentare la governance, tenere lo spazio aperto e imporre la legge e l’ordine’.

Il consiglio ha rivelato un segreto aperto: le zone di tiro della Cisgiordania hanno lo scopo di bloccare l’accesso dei palestinesi alle loro terre e di ostacolare lo sviluppo naturale e la crescita di città, villaggi e comunità di pastori. Questo è ‘tenere lo spazio aperto’  che in pratica è la presa di controllo da parte degli ebrei.

L’esercitazione militare – che includeva il tiro dell’artiglieria a circa un chilometro dalle case della gente e, contrariamente all’esplicita promessa dell’esercito, il movimento di carri armati e artiglieria mobile nel villaggio di Jinba e ha danneggiato campi e distrutto strade. Questo è ciò che si intende per ‘imporre la legge e l’ordine’: ricordare ai palestinesi che le loro vite sono subordinate alle esigenze dell’esercito e all’espansione degli insediamenti. Nello stesso spirito, la mancanza di ‘governance’ si riferisce al fatto che le autorità israeliane non sono riuscite ad eliminare i villaggi di Masafer Yatta (Military Firing Zone 918), i cui residenti non sono stati ‘volontariamente’ sfollati e reinsediati a Yatta, nonostante i divieti draconiani di costruzione che sono stati loro imposti.

Nella Valle del Giordano settentrionale, questa settimana le forze dell’esercito e dell’amministrazione civile hanno condotto un’altra operazione di ordine pubblico: hanno distrutto e sequestrato, per la seconda volta in tre mesi, le strutture rudimentali di una piccola comunità di pastori a Khirbet Humsa, che affitta terreni dai residenti di Tubas e Tamoun.

I membri della comunità Humsa sono originari del villaggio di Samu’a, nel sud della Cisgiordania. La costruzione israeliana e le restrizioni di movimento hanno ridotto la loro area di pascolo e l’accesso all’acqua nel sud, inducendo le famiglie a spostarsi a nord con le loro greggi.

L’amministrazione civile finge che la sua unica preoccupazione sia il benessere delle famiglie quando ordina loro di spostarsi di circa 15 chilometri verso ovest a causa del pericolo di rimanere nella Zona di Fuoco Militare 903. La verità è che la loro presenza ostacola l’espansione degli insediamenti vicini e gli allevamenti di ovini e bovini stabiliti illegalmente nella zona negli ultimi anni. 

Le elezioni imminenti e la pandemia non hanno disturbato la routine dei coloni. La destra pro-annessione è riuscita a rimuovere l’occupazione dalla discussione politica, ma i suoi crimini continuano. I partiti di sinistra devono riportare l’occupazione nell’agenda pubblica e politica. Altrimenti, né loro né lo stato avranno l’agognata resurrezione”.

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Riportare l’occupazione nell’agenda politica. Se in Israele esistesse ancora una sinistra…

Lo “Stato” dei coloni

Settecentocinquantamila abitanti. Centocinquanta insediamenti. Centodiciannove avamposti. Il 42 per cento della West Bank controllato. L’86 per cento di Gerusalemme Est “colonizzata”. Uno Stato nello Stato. Dominato da una destra militante, fortemente aggressiva, ideologicamente motivata dalla convinzione di essere espressione dei nuovi eroi di Eretz Israel, i pionieri della Grande Israele. Quella che si svela è una verità spiazzante: oggi in Terrasanta, due “Stati” esistono già: c’è lo Stato ufficiale, quello d’Israele, e lo “Stato di fatto”, consolidatosi in questi ultimi cinquant’anni: lo “Stato” dei coloni in Giudea e Samaria (i nomi biblici della West Bank).

A dar conto della dimensioni di questo “Stato” sono i dati di un recente rapporto di B’tselem (l’ong pacifista israeliana che monitorizza la situazione nei Territori). Lo Stato “di fatto” ha le sue leggi, non scritte, ma che scandiscono la quotidianità di oltre 750mila coloni.

Lo “Stato di Giudea e Samaria” è armato e si difende e spesso si fa giustizia da sé contro i “terroristi palestinesi” che, in questa visione manichea, coincidono con l’intera popolazione della Cisgiordania. Molti attacchi contro i palestinesi sono stati registrati nelle aree di Ramallah e Nablus (Cisgiordania occupata). In particolare, nella zona vicina agli avamposti della Valle Shiloh e in quella in prossimità degli insediamenti israeliani di Yitzhar (Nablus) e Amona (Ramallah), quest’ultimo da poco evacuato dal governo israeliano. Nel villaggio di Yasuf (governatorato di Salfit), i residenti palestinesi si sono svegliati con i pneumatici di 24 auto bucati e alcune scritte razziste in ebraico (“Morte agli arabi” tra le più diffuse) lasciate sulle loro abitazioni. Sono i cosiddetti “price-tag” (tag mechir in ebraico) ovvero gli atti di ritorsione (il “prezzo da pagare”) compiuti dagli attivisti di destra e coloni israeliani contro i palestinesi in risposta ad un attacco da parte di quest’ultimi.

Citando ufficiali della difesa, Haaretz scrive che gli attivisti di destra più estremisti sono “i giovani delle colline”, molti dei quali vivono negli avamposti illegali della Cisgiordania e il cui numero è stimato intorno alle trecento unità. Un dato interessante è che la maggior parte dei responsabili delle violenze è giovanissima (tra i quindici e i sedici anni). Nel 1997, a un anno dal primo mandato di Benjamin Netanyahu come primo ministro, c’erano circa 150.000 coloni in Cisgiordania. Due decenni dopo il numero dei coloni è vicino ai 600.000, esclusi i quartieri di Gerusalemme est oltre la Linea Verde. Questi dati non includono i coloni che vivevano negli avamposti illegali (complessivamente si superano i 750.000). 

Il “cuore” ideologico dello “Stato” dei coloni è a Hebron.

Le categorie della politica non possono, da sole, spiegare perché ottocento coloni siano disposti a vivere blindati, e sfidare duecentomila palestinesi. Perché a spiegarlo è altro: è l’essere convinti che quella presenza ha una valenza messianica, perché qui, ti dicono, è stato incoronato Davide, perché questa è “Eretz Israel”, la Sacra Terra d’Israele, e abbandonare il campo significherebbe tradire Dio, la Torah, il popolo eletto. Hebron racconta di una bramosia di possesso assoluto che esclude l’altro da sé, ne cancella storia e identità, in nome di una “Fede” che non ammette compromessi. Tra neppure tre mesi, il 17 settembre, Israele andrà al voto, per le elezioni legislative anticipate. Con il centrosinistra che si spacca, un primo ministro, Benjamin Netanyahu, che da temere ha “solo” i suoi guai giudiziari, la destra ultranazionalista è data in crescita nei sondaggi. Nello “Stato dei coloni” non c’è partita: qui non c’è spazio per pacifisti, sinistri e sionisti. Qui il sionismo è morto.

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La denuncia di Hrw

 “Un rapporto pubblicato da Human Rights – scrive Michela Perathoner inviata di Unimondo in Palestina  dimostra con chiarezza la discriminazione perpetrata da Israele nei confronti della popolazione palestinese. ‘I bambini palestinesi che vivono in aree sotto controllo israeliano studiano a lume di candela, mentre vedono la luce elettrica attraverso le finestre dei colonii, dichiara a tale proposito Carroll Bogert, vice-direttore esecutivo per le relazioni esterne di Human Rights Watch. 

Il rapporto Separati ed ineguali, ultimo di una serie di documenti pubblicati dall’organizzazione per la tutela dei diritti umani sulla questione palestinese, identifica pratiche discriminatorie nei confronti dei residenti palestinesi rispetto alle politiche che vengono invece promosse per i coloni ebrei. Un sistema di leggi, regole e servizi distinto per i due gruppi che abitano la Cisgiordania: in poche parole, secondo Human Rights Watch le colonie fiorirebbero, mentre i palestinesi, sotto controllo israeliano, vivrebbero non solo separati e in maniera ineguale rispetto ai loro vicini, ma a volte anche vittime di sfratti dalle proprie terre e case. 

 ‘E’assurdo affermare che privare ragazzini palestinesi dell’accesso all’istruzione, all’acqua o all’elettricità abbia qualcosa a che fare con la sicurezza’, spiega ancora Bogert. Perché il problema, come sempre, è  la sicurezza, e le motivazioni indicate dal Governo israeliano qualora si parli di discriminazioni o trattamenti differenziati tra coloni e palestinesi residenti in Cisgiordania, vi vengono direttamente o indirettamente collegate. 

Il rapporto, insomma, identifica pratiche discriminatorie che non avrebbero ragione di esistere neanche in base a questo genere di motivazioni. Come denunciato da Human Rights Watch, infatti, i palestinesi verrebbero trattati tutti come dei potenziali pericoli per la sicurezza pubblica, senza distinguere tra singoli individui che potrebbero rappresentare una minaccia effettiva e le altre persone appartenenti allo stesso gruppo etnico o nazionale. Atteggiamenti e politiche discriminatorie, insomma. ‘I palestinesi vengono sistematicamente discriminati semplicemente sulla base della loro razza, etnia o origine nazionale, vengono privati di elettricità, acqua, scuole e accesso alle strade, mentre i coloni ebrei che vi abitano affianco godono di tutti questi benefici garantiti dallo Stato’, ha dichiarato Bogert. Il risultato ottenuto dalle politiche discriminatorie di Israele, che secondo Hrw renderebbero le comunitá praticamente inabitabili, sarebbe, insomma, quello di forzare i residenti ad abbandonare i loro paesi e villaggi.

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Secondo l’analisi realizzata da Human Rights Watch sia nell’area C che a Gerusalemme Est, la gestione israeliana prevederebbe in entrambe le zone generosi benefici fiscali e di supporto a livello di infrastrutture nei confronti degli coloni ebrei, mentre le condizioni per i locali palestinesi sarebbero tutt’altro che vantaggiose. Carenza di servizi primari, penalizzazione della crescita demografica, esproprio di terre, difficoltà  amministrative per l’ottenimento di ogni genere di permessi: vere e proprie violazioni dei diritti umani, in quanto si tratterebbe di discriminazioni effettuate solo ed esclusivamente sulla base di un’appartenenza razziale ed etnica. Tutte misure che, secondo quanto denunciato da Human Rights Watch, avrebbe limitato, negli ultimi anni, l’espansione delle comunità palestinesi e peggiorato le condizioni di vita dei residenti”. 

Così l’inviata di Unimondo.

La denuncia di Save the Children

Nel report Il pericolo è la nostra realtà, Save the Childrem ha raccolto le testimonianze di oltre 400 bambini delle comunità più colpite dal conflitto in Cisgiordania e gli attacchi più comuni segnalati dagli studenti consistono nell’uso di gas lacrimogeni e nelle incursioni militari. 

In particolare, 3 studenti su 4 hanno riferito che le loro scuole sono state attaccate, una percentuale che sale al 93% per i bambini e i ragazzi di Nablus. Tre bambini su 4, inoltre, hanno paura di incontrare militari o colonmentre vanno a scuola e temono di essere insultati o minacciati con gas lacrimogeni o aggressioni fisiche. Uno studente su 4, ancora, non si sente al sicuro quando è a scuola e molti soffrono di ansia e stress che si manifestano attraverso sintomi fisici come tremori incontrollabili e svenimenti oppure perdita di autostima e paura. Quasi un terzo dei bambini ha poi raccontato di avere difficoltà a concentrarsi in classe a causa delle situazioni che si trovano ad affrontare quotidianamente e, tra questi, 8 su 10 hanno detto che sullo svolgimento delle loro attività in classe incide fortemente la paura.

Alcuni studenti hanno iniziato a piangere e altri stavano soffocando quando i soldati hanno sparato i gas lacrimogeni. Non riuscivamo a respirare, anche a causa della paura e dell’ansia che provavamo. C’era un odore di gas e ci bruciavano gli occhi. A scuola non eravamo equipaggiati per affrontare una simile esperienza. È stato doloroso e ho avuto molta paura, è la testimonianza di Rima*, 13 anni, che ha ricordato l’attacco contro la sua scuola a Betlemme.

“I soldati hanno attaccato la mia scuola tre o quattro volte l’anno scorso. Hanno gettato lacrimogeni e sparato munizioni vere. Alcuni insegnanti e studenti non riuscivano a respirare, è arrivata l’ambulanza e siamo andati tutti a casa”, ha raccontato Farea*, 12 anni, di Hebron.

Questa è la “normalità” nei Territori occupati. Una “normalità” che fa orrore. Raccontarla è un dovere. Cancellarla è un crimine. Anche mediatico. 

(*nomi di fantasia per tutelare l’identità dei bambini intervistati).

 

 

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