Dopo l'Arabia Saudita, fermiamo la vendita d'armi agli assassini di Regeni
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Dopo l'Arabia Saudita, fermiamo la vendita d'armi agli assassini di Regeni

Prima che si parli di "Rinascimento" egiziano: il Paese nordafricano ha chiesto due fregate Fremm di Fincantieri, del valore di 1,2 miliardi di euro

Conte ed Al Sisi
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

1 Febbraio 2021 - 15.25


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Ed ora, replichiamo con l’Egitto ciò che è stato deciso dal Governo italiano per l’Arabia Saudita: revoca della vendita di armi.
All’inizio di gennaio Paola e Claudio Regeni hanno avviato un’iniziativa giudiziaria nei confronti del governo italiano, accusandolo di aver violato la legge 185 del 1990: l’Italia ha venduto armi all’Egitto, Paese che viola i diritti umani. L’esposto è stato depositato alla Procura di Roma. Pochi mesi fa infatti il Paese nordafricano ha chiesto espressamente all’Italia due fregate Fremm di Fincantieri, del valore di 1,2 miliardi di euro, navi che erano destinate inizialmente alla Marina Militare. Il governo italiano ha autorizzato la vendita tramite la società Orizzonti Sistemi Navali, controllata da Fincantieri e Leonardo. Ma l’affare con l’Egitto è molto più grosso: siti d’informazione araba nei mesi scorsi hanno divulgato la notizia, poi confermata, della vendita all’Egitto di 6 fregate Fremm, quattro nuove oltre alle due già consegnate, 20 pattugliatori d’altura di Fincantieri, oltre a 24 caccia Eurofighter Typhoon e altri velivoli d’addestramento M-346 di Leonardo, più un satellite da osservazione. Una commessa del valore complessivo di 10,7 miliardi di dollari.

Disarmiamo al-Sisi

Il deputato di LeU, Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, in un’intervista a Fanpage.it

Io credo che la conseguenza logica della scelta che abbiamo fatto in Arabia Saudita ci dovrebbe portare a rivedere la scelta autorizzativa che abbiamo fatto sull’Egitto, perché questo Paese è coinvolto come l’Arabia Saudita nella guerra in Yemen, fa parte della stessa coalizione – afferma Il deputato di LeU, Erasmo Palazzotto, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, in un’intervista a Fanpage.it.  Quindi anche le armi che vendiamo agli egiziani vengono usate in quel conflitto, oltre che per la repressione dei civili. Per molti anni l’Italia aveva sospeso la vendita di armamenti verso il Cairo. Ha ripreso dal 2018, fino ad arrivare alla vendita delle due fregate Fremm di Fincantieri. Ma queste sono solo quelle più vistose, che fanno dell’Egitto il primo partner commerciale dell’Italia per la vendita di armamenti.

E al sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano (M5S) che afferma che  questa grossa commessa militare non inficia in alcun modo la ricerca della verità per Regeni, Palazzotto, nella stessa intervista, ribatte così: “Il sottosegretario Di Stefano ci ha spiegato che se quelle navi non gliele avessimo vendute noi l’Egitto le avrebbe comprate comunque da un altro Paese. Ma è chiaro che nel momento in cui si fa questa scelta la richiesta di verità e giustizia per Giulio diventa solo un ‘pro forma’. Diventano parole vuote, hanno ragione i genitori di Regeni. Non siamo più credibili agli occhi degli egiziani. Senza contare che noi in questo momento vendiamo armi, pistole e fucili, alle stesse forze di sicurezza che hanno rapito, torturato e ucciso Giulio Regeni. È una grande contraddizione”.

La “commessa del secolo”

Scrive su Osservatoriodiritti.it Giorgio Beretta, esponente di Rete Italiana Pace e Disarmo, tra i più autorevoli analisti in questo campo: “La chiamano già la ‘commessa del secolo’.  Un affare da 9 miliardi di euro per rifornire gli autocrati golpisti del Cairo dei più moderni sistemi militari italiani. Compresi quelli «non cedibili all’estero, pena la diffusione sostanziale di segreti e tecnologie militari nazionali», spiegano fonti ben informate.

C’è dentro tutto l’arsenale bellico del tanto declamato Made in Italy: due fregate multiruolo Fremm destinate alla Marina miliare italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi), ma anche altre quattro navi e 20 pattugliatori (che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani), 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra, che farebbe dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani. È l’astuta “mossa del cavallo” del faraone del Cairo. Quella che, con uno spostamento a elle sulla scacchiera, gli permette di liberarsi di un impiccio e di uscire da una situazione critica. L’impiccio per il Cairo è – come noto – l’inchiesta dei magistrati italiani sull’omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto e sulla cui morte le autorità egiziane non hanno mai contribuito a fare chiarezza. La situazione critica è quella del riverbero internazionale delle terribili condizioni, dal carcere alle torture,  in cui riversano in Egitto gli oppositori politici, giornalisti, sindacalisti, universitari, difensori dei diritti umani: non ultimo Patrick Zaki. 

Con una sola mossa (l’acquisto di sistemi militari italiani) – aggiunge Beretta –  il presidente al -Sisi mira non solo a fare tabula rasa delle rimostranze per la gestione del caso Regeni, ma soprattutto intende accreditarsi agli occhi dell’Italia come un partner affidabile e rispettoso dei diritti umani: quale Paese venderebbe mai un intero arsenale militare ad un autocrate che permette l’assassinio di un suo cittadino? Tanto più quanto questo Paese ha tra le sue leggi quella che vieta espressamente di esportare armi  a nazioni «i cui governi sono responsabili di violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani”?

Lettera a Di Maio

“Rifiutando di concedere l’autorizzazione all’esportazione di sistemi militari all’Egitto, l‘Italia ha la possibilità di bloccare simili forniture da parte di tutta l’Unione Europea”. E’ il passaggio centrale di una lettera che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha inviato recentemente al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

“Si tratta di una misura – spiegano i promotori della missiva – che non penalizzerebbe il nostro Paese, ma anzi avrebbe l’effetto di coinvolgere tutti gli Stati membri dell’Unione europea bloccando a livello europeo per almeno tre anni tutte le licenze di esportazioni di sistemi militari sostanzialmente identici a quelli rifiutati dall’Italia”. In proposito, la lettera richiama la norma prevista dalla Posizione Comune del Consiglio 2008/944 (“Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”) per contrastare la concorrenza sleale tra i Paesi dell’UE facendo in modo che le licenze per forniture di sistemi militari non autorizzate da un Stato non vengano rilasciate da altri Stati membri. 

Desaparecidos

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agenc.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato. Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi. 

L’inferno all’ombra delle Piramidi

Le autorità egiziane tengono i detenuti minorenni insieme agli adulti, in violazione del diritto internazionale dei diritti umani. In alcuni casi, sono imprigionati in celle sovraffollate e non ricevono cibo in quantità sufficiente. Almeno due minorenni sono stati sottoposti a lunghi periodi di isolamento. Un quadro agghiacciante è quello che emerge da un recente rapporto di Amnesty International. Le autorità egiziane hanno sottoposto minorenni a orribili violazioni dei diritti umani come la tortura, la detenzione in isolamento per lunghi periodi di tempo e la sparizione forzata per periodi anche di sette mesi, dimostrando in questo modo un disprezzo assolutamente vergognoso per i diritti dei minori”, denuncia Najia Bounaim, direttrice delle campagne sull’Africa del Nord di Amnesty International. “Risulta particolarmente oltraggioso il fatto che l’Egitto, firmatario della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, violi così clamorosamente i diritti dei minori”, sottolinea Bounaim.

Minorenni sono stati inoltre processati in modo iniquo, talvolta in corte marziale, interrogati in assenza di avvocati e tutori legali e incriminati sulla base di “confessioni” estorte con la tortura dopo aver passato fino a quattro anni in detenzione preventiva. Almeno tre minorenni sono stati condannati a morte al termine di processi irregolari di massa: due condanne sono state poi commutate, la terza è sotto appello.

Sulla base del diritto internazionale, il carcere dev’essere solo l’ultima opzione per i minorenni. Sia la legge egiziana che le norme internazionali prevedono che i minorenni debbano essere processati da tribunali minorili. Tuttavia, in Egitto ragazzi dai 15 anni in su vengono processati insieme agli adulti, a volte persino in corte marziale e nei tribunali per la sicurezza dello Stato. Sotto la presidenza al-Sisi e col pretesto di combattere il terrorismo, migliaia di persone sono state arrestate arbitrariamente – centinaia delle quali per aver espresso critiche o manifestato pacificamente – ed è proseguita l’impunità per le amplissime violazioni dei diritti umani quali i maltrattamenti e le torture, le sparizioni forzate di massa, le esecuzioni extragiudiziali e l’uso eccessivo della forza.  Dal 2014 sono state emesse oltre 2112 condanne a morte, spesso al termine di processi iniqui, almeno 223 delle quali poi eseguite.  La legge del 2017 sulle Ong è stata il primo esempio delle norme draconiane introdotte dalle autorità egiziane per stroncare la libertà di espressione, di associazione e di manifestazione pacifica.  La legge consente alle autorità di negare il riconoscimento delle Ong, di limitarne attività e finanziamenti e di indagare il loro personale per reati definiti in modo del tutto vago. Nel 2018 sono state approvate la legge sui mezzi d’informazione e quella sui crimini informatici, che hanno esteso ulteriormente i poteri di censura sulla stampa cartacea e online e sulle emittenti radio-televisive conclude Bounaim.

La tortura di Stato non risparmia i bambini

“Ci sono bambini che descrivono di essere stati vittime di ‘”waterboarding” e di scariche elettriche sulla lingua e sui genitali, senza alcuna conseguenza giuridica per le forze di sicurezza egiziane,” spiega Bill Van Esveld, responsabile del settore diritti dei bambini di Human Rights Watch (Hrw). Nel rapporto di 43 pagine, Hrw sostiene di aver documentato abusi contro 20 ragazzi di età compresa tra 12 e 17 anni al momento dell’arresto. Quindici di loro hanno dichiarato di essere stati torturati in detenzione preventiva, di solito durante un interrogatorio tenuto mentre erano in isolamento. Sette bambini hanno riferito che gli agenti di sicurezza li hanno torturati con l’elettricità, incluso il “taser”. Tra le storie riportate nella denuncia quella di un ragazzo che ha raccontato di essere stato arrestato all’età di 16 anni e che temeva di non poter “sposarsi o essere in grado di avere figli” a causa di ciò che gli avevano fatto gli agenti di sicurezza durante la detenzione. Le accuse di Hrw sono confermate da Belady, un’organizzazione non governativa che aiuta i bambini di strada che ha raccolto testimonianze verificate dei ragazzi, delle loro famiglie e degli avvocati difensori, e documenti giudiziari, ricorsi alle autorità, cartelle cliniche e video. “I racconti strazianti di questi bambini e delle loro famiglie rivelano come il meccanismo di repressione egiziano abbia sottoposto i bambini a gravi abusi,” spiega Aya Hijazi, condirettrice di Belady. Hijazi, che ha la doppia cittadinanza egiziana e americana è stata arrestata per l’attivismo di Belady, che in arabo significa “la nostra nazione”. È stata arrestata insieme a suo marito e ad altri sei nel maggio 2014 con l’accusa di abuso di minori per poi essere assolta e rilasciata ma dopo aver trascorso in carcere quasi tre anni. 

Il “Rinascimento” egiziano

Questo è l’Egitto ai tempi di al-Sisi. E vediamo se c’è chi dopo l’exploit saudita, pensi di replicare lo show evocando un “Rinascimento” egiziano. Ogni riferimento al senatore Renzi è tutt’altro che casuale.

D’altro canto, il capo di Italia Viva si è portato avanti nel lavoro: “Chi dice che l’Egitto non ha fatto nulla per le indagini sulla morte di Giulio Regeni, non si rende conto di quel che è l’Egitto. Probabilmente li qualcuno pensava cavarsela facendo finto di niente, ma gli abbiamo ritirato l’ambasciatore, abbiamo rifiutato verità di comodo, abbiamo portato il tema nei tavoli internazionali e abbiamo portato al Cairo le autorità giudiziarie. Noi abbiamo fatto quel che deve fare un Paese civile”. 

Così parlò Renzi quando è stato ascoltato dalla Commissione Regeni in quanto presidente del Consiglio a tempo del rapimento e uccisione di Giulio Regeni in Egitto. 

Incurante della realtà, Renzi prosegue nella sua narrazione. E detta la linea: “Va perseguita la strada del dialogo con l’Egitto, con le condizioni di una democrazia liberale, e va fatto in modo coordinato. Se va il ministro degli Esteri va lui, non come con il primo governo Conte con cui prima andava il ministro degli Esteri, poi il presidente della Camera, poi il presidente del Consiglio”. “Si va con uno stile, un Paese serio gestisce questa dinamica sapendo che siamo in una complicatissima pagina”.

Un Paese serio avrebbe alzato la voce, a partire dal Governo e dal Parlamento, di fronte alla performance di un senatore della Repubblica a Riyadh. Fosse per Matteo e per il suo ego ipertrofico, magari replicherebbe a Il Cairo. Ma c’è un problema: al-Sisi non se la passa bene, quanto a soldi. Non è come il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman. Dove li trova 80mila euro?

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