Conte, Di Maio, salvate la vita di Patrick Zaki. Vogliono "suicidarlo"
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Conte, Di Maio, salvate la vita di Patrick Zaki. Vogliono "suicidarlo"

Le notizie che filtrano dall’inferno di Tora, il carcere di massima sicurezza dove il giovane ricercatore, cittadino onorario di Bologna, è rinchiuso, sono drammatiche.

Patrick Zaki
Patrick Zaki
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

22 Dicembre 2020 - 16.43


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Salvate Patrick Zaki. Salvategli la vita. Perché di questo si tratta. Le notizie che filtrano dall’inferno di Tora, il carcere di massima sicurezza dove il giovane ricercatore, cittadino onorario di Bologna, è rinchiuso in una sorta di ergastolo amministrativo, sono ancora più inquietanti, drammatiche di quanto già evidenziato ieri dalla drammatica testimonianza della madre di Patrick che ha potuto incontrare il figlio sabato 19 dicembre nella prigione di Tora. “Sono fisicamente e mentalmente esausto, non ne posso più di stare qui e mi deprimo a ogni tappa importante dell’anno accademico mentre sono qui invece che con i miei amici a Bologna”, le ha detto.  La donna racconta che “durante la visita, Patrick non era affatto se stesso, era diverso rispetto a qualsiasi altra visita e ci ha letteralmente spezzato il cuore”. Inoltre, si legge nella dichiarazione rilasciata a nome della famiglia, “ci ha sconvolto sapere che è diventato talmente depresso da dire: ‘Raramente esco dalla mia cella durante il giorno, perché non riesco a capire perché sono qui e non voglio affrontare la realtà per cui posso andare a camminare su e giù nel raggio di pochi metri, per poi essere rinchiuso di nuovo in una cella ancora più piccola’”. 
“Nostro figlio – prosegue la nota – è una persona innocente e un brillante ricercatore, dovrebbe essere valorizzato, non rinchiuso in una cella. Dieci mesi fa, Patrick stava lavorando al suo master e pensava di terminarlo per poi proseguire con il dottorato di ricerca”.  “Ora come ora, il suo futuro è completamente incerto; non sappiamo quando sarà in grado di continuare gli studi, di lavorare e persino di tornare alla sua vita sociale, un tempo ricca. Chiediamo a ogni persona responsabile e a chi prende le decisioni di rilasciare immediatamente Patrick. Restituiteci nostro figlio e restituiteci tutte le nostre vite”, conclude la famiglia. Il messaggio è stato pubblicato su Facebook da un gruppo a sostegno di Patrick Zaki. 

Induzione al suicidio

Anche nella sua ultima lettera, datata 12 dicembre, Zaki aveva lamentato problemi alla schiena e parlato del suo stato mentale definito “non un granché”. Ieri, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ospite di Che tempo che fa, ha dichiarato: “Siamo al lavoro per far liberare Patrick Zaki e riportare in Italia Chico Forti, siamo impegnati per la verità per Giulio Regeni e Mario Paciolla, morto in Colombia. E’ il momento che l’intera Unione europea si schieri sui diritti umani e in particolare sui casi Regeni e Zaki”. 

No, caro ministro. La vita di Patrick non può essere appesa ai tempi e alla volontà, peraltro tutt’altro che determinati. Non è possibile, non è tollerabile. Giorno dopo giorno, le condizioni psicofisiche del giovane ricercatore stanno degradando. Lo diciamo con chiarezza, perché una delle modalità utilizzate dagli aguzzini egiziani per eliminare tutti gli oppositori, veri o presunti, è quello di portarli a considerare la morte come una liberazione. Esistono decine di testimonianze, raccolte da Ong egiziani e internazionali di difesa dei diritti umani, che raccontano questa pratica. La nostra diplomazia lo sa bene, lo sanno bene i nostri 007. E lo sanno bene il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Qui non siamo alle prese con il sequestro di un cittadino italiano, o comunque divenuto di fatto tale come Patrick, da parte di una banda di criminali o di jihadisti. In questi casi, la prassi abituale, anche se mai confermata, da parte delle autorità italiane è quella di pagare un riscatto. Ma nella vicenda Zaki, come in quella di Giulio Regeni, non siamo alle prese con miliziani jihadisti o simili, ma con uno Stato che si fa spregio dei più elementari diritti umani, che fa della tortura una pratica quotidiana, che ha messo in galera oltre 60mila oppositori – attivisti e avvocati dei diritti umani, blogger, artisti, giornalisti indipendenti, personalità politiche di varia estrazione ideologica – e che ha fatto sparire oltre 34mila persone, come documentato da Globalist, i desaparecidos egiziani.

Questa è la situazione. Patrick Zaki rischia la vita. Ma dalle parti di Palazzo Chigi e della Farnesina sembra che non si sappia. Nessun passo diplomatico è stato compiuto dal nostro ministro degli Esteri per evidenziare le preoccupazioni italiane, neanche dopo la importante risoluzione approvata dal Parlamento europeo, che chiede verità e giustizia per Regeni e la liberazione di Zaki. E che invita gli Stati membri ad attuare sanzioni contro l’Egitto se queste richieste non venissero recepite. 

Richieste chiarissime. Ma che sono destinate a restare inevase se alle parole non faranno seguito i fatti. Un fatto sarebbe la convocazione dell’Ambasciatore egiziano. Un fatto sarebbe il richiamo per consultazioni urgenti del nostro Ambasciatore in Egitto. Un fatto sarebbe la sospensione della vendita di armi all’Egitto. Un non fatto è limitarsi a invocare un’azione comune europea. 

Chi scrive ha provato a contattare l’Ambasciata d’Egitto a Roma. Dopo diversi tentativi andati a vuoto, siamo riusciti finalmente a farci passare un funzionario addetto alle relazioni pubbliche. Alle nostre insistenze, alla fine ha risposto con un lapidario: “Il signor Zaki è un cittadino egiziano che è agli arresti con gravi imputazioni di terrorismo e minaccia alla sicurezza nazionale. La giustizia farà il suo corso”.

Quest’ultima affermazione più che rassicurare, inquieta.

Zaki – scrive sul Corriere.it Marta Serafini, tra i giornalisti che meglio conoscono la realtà egiziana – è rinchiuso da oltre 300 giorni nel carcere di Tora, considerato uno dei peggiori al mondo. Questa enorme struttura, fondata nel 1908 dall’allora ministro dell’Interno Mustafa al-Nahhas, è divisa in quattro blocchi ed ospita al suo interno un ospedale militare e un’ala di massima sicurezza nota come Lo Scorpione’. Da tempo Ong e gruppi internazionali denunciano le condizioni di detenzione a Tora e le sistematiche e ripetute violazioni dei diritti umani che vi vengono commesse. “Siamo in una tomba. Siamo vivi, ma in una tomba”, dichiaravano tramite loro parenti alcuni detenuti a Tora citati in un rapporto di Human Rights Watch, a dimostrazione del terribile stato del carcere, dove – secondo diverse ong – ai prigionieri sono inflitte torture e vengono negati i servizi medici. Nel luglio scorso Amnesty Italia aveva lanciato l’allarme anche sul rischio contagio da Covid-19 nel carcere, annunciando la morte del giornalista Mohamed Monir, che aveva contratto il coronavirus proprio a Tora. Qui sono stati detenuti, tra gli altri, gli ex presidenti Hosni Mubarak e Mohamed Morsi.”

L’inferno di Tora

 “I blocchi a forma di H del carcere di Tora, alla periferia meridionale del Cairo, rimandano alla famigerata prigione di Maze, più comunemente denominata Long Kesh, nella cittadina nordirlandese di Lisburn, dove tra il 1971 e il 2000 morirono decine di detenuti, tra cui Bobby Sands, leader dell’Ira stroncato dopo 64 giorni di sciopero della fame e della sete – racconta su Il Fatto  Quotidiano.it Pierfrancesco Curzi –  I livelli di crudeltà non sono dissimili, tra condizioni generali pessime, violenze e torture, con una differenza: la struttura alle porte di Belfast è stata chiusa dopo gli Accordi di Pace del 1998 (Good Friday Agreement) e una serie di spettacolari evasioni, mentre l’inferno di Tora è attivo e non sembra per nulla destinato ad abdicare. Proprio nel settembre scorso il tentativo di fuga da parte di un gruppo di reclusi nel braccio ‘reati comuni’ è stato represso nel sangue dall’apparato di sicurezza: 8 i morti, di cui 4 poliziotti. Nel corso degli anni, con un crescendo esponenziale, le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, a partire da Amnesty International, hanno denunciato le terribili condizioni in cui versano i detenuti di Tora. Al resto hanno pensato i racconti dei testimoni oculari, vittime loro stessi di abusi e di pratiche di tortura, una volta fuori da quell’incubo.

Lo Stato di polizia all’ombra delle Piramidi

Nell’Egitto di al-Sisi i “desaparecidos” si contano ormai a decine di migliaia. E più della metà dei detenuti nelle carceri lo sono per motivi politici. Per contenerli, il governo ha dovuto costruire 19 nuove strutture carcerarie. Un conteggio ufficiale non è stato fatto, ma attivisti per i diritti umani egiziani, con la garanzia dell’anonimato per non fare una brutta fine, hanno detto a Globalist che un conteggio in difetto, porta a non meno di 43.000 desaparecidos. Per comprendere l’enormità di questo crimine, va ricordato che, tra il 1976 e il 1983, in Argentina, sotto il regime della Giunta militare, sono scomparsi fino a 30.000 dissidenti o sospettati tali – 9.000 accertati secondo i rapporti ufficiali della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas (Conadep) – su 40.000 vittime totali. 

Il generale-presidente esercita un potere che si ramifica in tutta la società attraverso l’esercito, la polizia, le bande paramilitari e i servizi segreti, i famigerati Mukhabarat, quasi sempre più di uno. Al-Sisi si pone all’apice di un triangolo, quello dello Stato-ombra: esercito, Ministero degli Interni (e l’Nsa, la National Security Agency.) e Gis (General Intelligence Service, i servizi segreti esterni).   Se lo standard di sicurezza si misurasse sul numero degli oppositori incarcerati, l’Egitto di al-Sisi I° sarebbe tra i Paesi più sicuri al mondo: recenti rapporti delle più autorevoli organizzazioni internazionali per i diritti umani, da Human Rights Watch ad Amnesty International, calcolano in oltre  60mila i detenuti politici (un numero pari all’intera popolazione carceraria italiana): membri dei fuorilegge Fratelli musulmani, ma anche blogger, attivisti per i diritti umani, avvocati…Tutti accusati di attentare alla sicurezza dello Stato.

Chi costruisce il suo potere su un sistema repressivo così radicato e tentacolare, non teme certo le parole. Ma le sanzioni, sì. Soprattutto economiche, vista la grave crisi in cui versa l’Egitto e il malessere e la rabbia sociali che il regime del presidente-carceriere prova a contenere con un mix di repressione e promesse che restano tali. Sanzioni mirate, dunque. Mirate ai conti bancari, all’estero, di quella nomenklatura militare-affaristica che si è arricchita sotto Mubarak e continua a farlo con al-Sisi. E poi, stop alla vendita di armi ad un regime che le usa per reprimere nel sangue le proteste interne e per dettar legge, in competizione con la Turchia del “sultano” Erdogan, in Libia, in Siria, nel Nord Africa tutto. 

Sanzionare non è nelle prerogative dell’Europarlamento. Ma dei singoli Stati membri, sì. E’ questione di volontà politica. E di coraggio. Qualità che difetta al “don Abbondio” della Farnesina.

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