La liberazione dei pescatori, l'affaire Regeni e gli "scambisti" di Roma

La liberazione, dopo 108 giorni di sequestro, di 18 pescatori di Mazara del Vallo, non è stata a costo zero, e neanche è dovuta massimamente al pur prezioso lavoro sul campo dei nostri 007

Haftar e Conte
Haftar e Conte
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Dicembre 2020 - 17.20


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Globalist lo aveva rimarcato quando una informazione mainstream che rilanciava, su carta, su video, sui siti, le trionfalistiche esternazioni del ministro degli Esteri Luigi Di Maio: dietro la liberazione, dopo 108 giorni di sequestro, di 18 pescatori di Mazara del Vallo, non è stata a costo zero, e neanche è dovuta massimamente al pur prezioso lavoro sul campo dei nostri 007. Se Khalifa Haftar ha deciso di liberare i 18 ostaggi, è perché ha ricevuto molto in cambio. C’è chi dice troppo. Fuori dalle miserrime polemiche interne alla Giorgia Meloni e Matteo Salvini, questa vicenda racconta una storia tutt’altro che esaltante per il nostro Paese e per chi lo governa. Perché se siamo riusciti a riportare a casa i 18 pescatori per la felicità dei loro cari, è perché siamo andati a bussare alla porta giusta quanto scomoda e, per certi versi, ignobile: quella di Abdel Fattah al-Sisi, il grande protettore dell’uomo forte della Cirenaica.

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Gli “scambisti”

Ha ragione Daniele Raineri, firma de Il Foglio, tra i giornalisti più capaci e informati in politica estera: “La liberazione dei pescatori in Libia è un’ottima notizia, ma è anche un disastro” Sintesi efficace. E vera. 

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Come è vera, perché informata, come sempre, è la riflessione di Nello Scavo, l’inviato di Avvenire tra i più profondi conoscitori della complessa ed esplosiva realtà libica: “Dopo avere salutato il dono natalizio della riunione di famiglie divise e angosciate, non si possono non fare i conti con le implicazioni politiche, diplomatiche e geostrategiche della vicenda – scrive Scavo-.  Perché, secondo molti analisti, il “riscatto”, stavolta, era Giuseppe Conte.Un riscatto incassato dal generale Haftar, responsabile, con le sue milizie marittime, del sequestro dei connazionali, che cercava fin dal primo momento una doppia legittimazione: davanti alla sua opinione pubblica e al cospetto dei suoi spazientiti sponsor (la Russia, l’Egitto di al-Sisi e gli Emirati Arabi). Che quella sui pescatori presi in ostaggio non fosse una partita da risolvere solo con le consuete spedizioni di valigette ripiene di dollari era apparso ben presto chiaro. E la missione del nostro premier in persona l’ha confermato.

Il generale ribelle, smessi i panni del rivoluzionario, ha indossato quelli da ‘signore della guerra’, continuando nelle sue scorribande. La vicenda, a lieto fine, dei pescatori (8 gli italiani) gli ha per il momento allungato la carriera politico-militare. Dopo aver promesso una facile conquista di Tripoli, l’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) si è impantanato venendo poi costretto, pochi mesi fa, alla ritirata per mano delle fazioni avversarie rinforzate di uomini e armi forniti dalla Turchia. Ankara ha soppiantato definitivamente le velleità italiane, con Roma passata in pochi anni da garante della Libia nelle relazioni internazionali a Paese che deve ottenere da altre cancellerie un’intercessione per liberare nostri connazionali.

Quasi tutti gli interlocutori italiani nella nazione africana sono caduti in disgrazia. Le milizie di Zawyah, che controllano il principale giacimento a cui attinge il nostro Paese, hanno recentemente visto l’arresto a Tripoli del comandante-trafficante Bija. Uno dei fratelli Dabbashi, boss del traffico di petrolio e migranti dalla Tripolitania, è stato catturato proprio dagli uomini di Haftar che sperano di ottenere da lui i segreti della negoziazione e dei lauti versamenti italiani a partire dal 2017. Informazioni con cui imbastire minacce e ricatti. Anche per questa ragione gli 007 del generale Caravelli, direttore dell’Aise, non hanno avuto vita facile nel gestire una trattativa che ha visto i massimi vertici dell’intelligence fare continuamente la spola tra Roma e Bengasi, dovendo districarsi tra i non pochi errori ereditati dopo anni di accordi spericolati con i referenti dei clan libici.

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Un negoziato tra gambero rosso e oro nero, lo avevamo definito. Perché apparentemente giocato sulla rivendicazione libica di un’area di pesca esclusiva, in realtà accampata come facile pretesto per mercanteggiare sul futuro dei giacimenti persi dall’Italia dopo la caduta del colonnello Gheddafi e anche su altri spinosi dossier, comprese le possibili ricadute sul caso Regeni in Egitto. «La visita di persona del premier Conte è stata imposta dal Lna come parte della trattativa. Da questo Haftar e i suoi negoziatori hanno tratto visibilità e credito politico», riferisce una fonte di intelligence internazionale in Libia. Che con altrettanto realismo riconosce ‘che non c’era altra strada per ottenere la liberazione dei vostri pescatori prima di Natale’.

Sotto al tavolo delle trattative ufficiali si è però disputato un altro braccio di ferro. Gli 007 italiani sarebbero riusciti a ottenere garanzie per la prosecuzione delle attività delle aziende italiane nel campo petrolifero di Abu Attifel, nel cuore della Cirenaica controllata da Haftar. Un risultato, riferiscono fonti vicine alle security petrolifere, per il tramite del gioco di sponda del Cairo con cui in particolare l’Eni ha costruito solidi rapporti grazie ai successi nelle esplorazioni di petrolio e soprattutto gas nel Paese delle Piramidi.

E dalla determinazione o dalla remissività verso il governo del Cairo nella sacrosanta ricerca della verità sull’omicidio di Giulio Regeni comprenderemo presto quali altri dossier siano entrati nell’intesa per l’auspicato rilascio dei 18 pescatori. Una partita che, nel colpevole disinteresse di molti verso le vicende libiche, tragedia delle migrazioni forzate compresa, ha visto soltanto la fine del suo primo tempo”.

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La versione di Ankara

“La Libia di Haftar ha voluto dare un messaggio con il sequestro dei 18 pescatori siciliani. Ha voluto dimostrare, con l’arrivo di Conte di Di Maio a Bengasi, che c’è un braccio di ferro tra Italia e Libia”. A parlare con l‘Adnkronos è Dundar Kesapli, giornalista turco arrivato oggi a Mazara del Vallo (Trapani) per seguire la vicenda dei pescherecci liberati ieri. Dundar Kesapli, che è anche Presidente dell’associazione dei giornalisti del Mediterraneo, è accompagnato da un collega della più importante agenzia di stampa turca. Commentando le parole del vescovo di Mazara del Vallo, secondo cui il sequestro dei due equipaggi è “soprattutto una vicenda politica”, il cronista turco spiega: “Ne sono convinto. perché ci sono da sempre problemi tra Italia e Libia”.

Alla corte del “faraone”

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E’ plausibile” che ci sia un legame tra il rilascio dei pescatori in Libia ed il caso Regeni e che il governo egiziano, “non necessariamente il presidente al-Sisi”, abbia convinto il generale Khalifa Haftar a lasciar partire gli italiani. Ad affermarlo  ad Aki-Adnkronos International  è Silvia Colombo, responsabile di ricerca del programma Mediterraneo e Medio Oriente presso l’Istituto affari internazionali (Iai), all’indomani della visita a Bengasi del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “La tempistica lascia adito a questo tipo di dubbio”, dichiara l’esperta sottolineando che un eventuale collegamento andrebbe “accertato” anche per capire “le prossime mosse” del governo italiano sul caso del ricercatore friulano ucciso in Egitto alla luce delle recenti dichiarazioni di Di Maio e della volontà espressa di coinvolgere l’Ue. “Se questo punto non dovesse andare avanti – sostiene Colombo – sarebbe il segnale di un passo indietro dell’Italia” mirato ad “abbassare” le tensioni con il Cairo riesplose dopo le conclusioni della magistratura italiana sull’omicidio Regeni. 

La visita di Conte e Di Maio, prosegue l’analista, si inquadra in un quadro complesso che coinvolge anche altri dossier regionali a partire dalla crisi nel Mediterraneo orientale. “E’ eccessivo dire che si sono resi pedine nelle mani di Haftar”, ma è stato un passaggio “delicato” ed “il fatto che si siano esposti significa riconoscere che il generale ha ancora un ruolo centrale negli equilibri politico-militari della Libia”.

Colombo evidenzia quindi come in questi anni la posizione dell’Italia in Libia non sia stata sempre “coerente”, con un riavvicinamento a Haftar sulla scia della sua offensiva a Tripoli poi rivisto a vantaggio del governo di unità nazionale (Gna).

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La visita aggiunge l’esperta dello Iai, “non ha fatto piacere” a Tripoli, ma bisogna sottolineare che il ruolo dell’Italia in Libia in questa fase non è quello del passato e lo stesso Gna ha altri “padrini”, a partire dalla Turchia di Erdogan.

“L’Italia – conclude Colombo  – non è riuscita a coltivarsi fino in fondo questo rapporto (con Tripoli, ndr). La Turchia potrebbe prendere questa visita in senso negativo minando le possibilità dell’Italia di svolgere un ruolo di mediazione nel dossier del Mediterraneo orientale, legato a doppio filo a quello libico”.

La triste morale

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Il problema non sta nella nostra diplomazia e nella nostra intelligence: le “feluche” e gli 007 italiani sono una eccellenza nello scacchiere mediorientale. Il problema è nella politica. E’ nel doppiogiochismo di Roma, nel sostenere al-Sarraj e al tempo stesso flirtare con Haftar. E’ nella subalternità dimostrata nei confronti degli attori esterni alla guerra per procura libica: l’’Egitto di al-Sisi, la Turchia di Erdogan, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e le petromonarchie del Golfo, per non parlare poi della Russia di Putin, la Francia di Macron e la Germania della Merkel. 

La diplomazia impone duttilità, capacità di manovra, un pizzico di cinismo. Ma tutto questo non può surrogare la mancanza di una visione strategica, della definizione di una “mission” da media potenza quale l’Italia è in quello che un tempo era “mare nostrum” ed oggi è diventato, per noi, il “mare delle insidie e delle trappole”.

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