Ora Cipro Nord può diventare provincia dell'impero neo-ottomano di Erdogan
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Ora Cipro Nord può diventare provincia dell'impero neo-ottomano di Erdogan

Il nazionalista di destra Ersin Tatar ha vinto le elezioni presidenziali della Repubblica turca di Cipro. Era fortemente sostenuto da Ankara.

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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

19 Ottobre 2020 - 12.13


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Il Sultano piazza il suo adepto. E fa di Cipro Nord una provincia
dell’impero neo-ottomano. Ieri il nazionalista di destra Ersin
Tatar ha vinto le elezioni presidenziali della Repubblica Turca di
Cipro Nord, una delle due repubbliche in cui è divisa l’isola e che
è riconosciuta solo dalla Turchia. Tatar, che ha vinto le elezioni
con circa il  51,7 per cento, è un sostenitore della separazione
dell’isola e ha sconfitto il presidente uscente socialdemocratico
Mustafa Akinci che è invece favorevole alla riunificazione con la
repubblica greco-cipriota, l’unica riconosciuta a livello
internazionale e membro dell’Unione Europea.
Il Sultano incassa
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan si è congratulato con
Tatar, mentre ancora nessun commento è arrivato dal governo
greco-cipriota. Tatar, durante il suo discorso della vittoria, ha
ringraziato Erdogan e ha detto che la repubblica si merita “la sua
sovranità” e ha aggiunto che i loro “vicini nel sud e la comunità
mondiale dovrebbero rispettare la nostra lotta per la libertà».tiPer
comprendere quanto forte sia l’interesse della Turchia nei
confronti dei risultati delle elezioni basta vedere quanto accaduto
a pochi giorni delle urne, quando il primo ministro turco-cipriota
ha annunciato in pompa magna la riapertura della spiaggia di
Yarosha  durante una visita in Turchia. La località turistica è
zona militare fin dal 1974 e il Governo greco-cipriota ne reclama
da sempre il controllo dato che la popolazione residente –
costretta a scappare a seguito dell’arrivo dei militari turchi – era
in maggioranza di origine greca. 
 il presidente della repubblica di Cipro, Nicos Anastasiades, ha
dichiarato che si tratta di una “inammissibile” e “flagrante
violazione del diritto internazionale” e delle risoluzioni del
Consiglio di sicurezza dell’Onu, in quanto il quartiere dovrebbe
essere abitato dai legittimi residenti e proprietari, che sono a suo
tempo fuggiti a sud. Dello stesso avviso il sindaco di Famagosta,
il greco-cipriota Simos Ioannou, per il quale”Varosha avrebbe
dovuto essere consegnata ai legittimi proprietari”, e la sua
riapertura da parte dei turco-ciprioti è una forma di “pressione
psicologica”.
Sulla questione è intervenuto anche il Pesc Josep Borrell, che ha
parlato di ”flagrante violazione dell’accordo di pace delle
Nazioni Unite”.

L’alleanza slabbrata
La questione di Cipro è certamente la più grave crisi diplomatica
che rischia di scoperchiare il Vaso di Pandora nelle relazioni
internazionali tra Nato, Ue e Turchia. La situazione politica
internazionale di Cipro è critica da decenni a causa dell’ultimo
Muro che divide i greci ciprioti e i turchi ciprioti. Nel 1975 i
turchi occuparono militarmente il nord dell’isola e la divisero
creando uno Stato fantoccio, la cosiddetta Repubblica turca di
Cipro del Nord, che a livello di diritto internazionale non è mai
stata riconosciuta, se non dalla Turchia. La recente scoperta di
importantissimi giacimenti d’idrocarburi al largo delle coste di
Cipro, ha fatto salire la tensione nelle acque del Mediterraneo
Orientale. La Turchia ha avviato le esplorazioni del tratto di mare
grazie all’autorizzazione del governo fantoccio non riconosciuto
di Cipro del Nord, mentre in realtà la Repubblica di Cipro,
membro della Ue, considera quel tratto come propria zona
economica esclusiva. Anche la Grecia sostiene che nelle sue
esplorazioni la Turchia violi spesso le sue acque, e a fine estate vi
sono stati incidenti militari fra la Marina turca e quella greca, due
forze armate che in realtà sono alleate all’interno del trattato
Nato. Una situazione estremamente tesa a livello di sicurezza
Nato e Ue, che ha spinto le Marine di Francia, Grecia, Italia e
Cipro ad organizzare un’esercitazione congiunta al fine di
spingere la Marina militare turca a limitare la sua presenza entro
le sei miglia nautiche di competenza dalle proprie coste, come
previsto dai trattati internazionali.
L’ideologia del Milli Gõruş, ovvero il complesso dottrinario
politico che unifica la prospettiva nazionalista del primato turco
con i dogmi della civiltà islamica basata sulla giustizia, contro la
civiltà occidentale, materialista e immorale, è alla base da sempre
dell’azione politica del leader neo-ottomano Erdogan. E’
evidente che l’Europa sia il primo obiettivo di questo nuovo
totalitarismo di matrice religiosa-politica: imbattersi in un
nemico che nessuno Stato alleato europeo ha ad oggi la volontà
di fronteggiare a salvaguardia del Continente richiama fatalmente
gli enormi rischi politico-istituzionali che solo la extrema
ratio della battaglia di Lepanto risolse. 
Potenza navale
Per decenni, Ankara è stata solo una potenza terrestre. Dal 2000,
sta investendo copiosamente sulla flotta. Surclassa ormai Atene
per naviglio: oltre 120mila tonnellate contro 65mila. Cipro è

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indifesa. Non ha una Marina, ma solo un pugno di pattugliatori
costieri. 
Annota Franco Palmas su Avvenire: “Erdogan ha gioco facile. Ha
tessuto una trama circolare, quasi una tenaglia, avviluppando i
potenziali nemici in una rete di basi navali, dal Corno d’Africa a
Misurata, in Libia. Con il governo di Tripoli ha siglato un’intesa
sulle zone economiche esclusive, dal potenziale esplosivo.
L’accordo ha esteso la piattaforma turcomediterranea a 200
miglia nautiche, contro le 12 previste dalla Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare e le 6 relative al mar Egeo.
Con Ankara esiste un ‘mega-problema’ a tratti irriducibile. La
Turchia disconosce la Convenzione e, di conseguenza, non è
possibile adire il Tribunale internazionale sul diritto del mare. La
sua intesa con Tripoli è gravida di conseguenze, perché priva
Atene di ampi spazi di mare, aperti a sud di Creta a promettenti
ricerche energetiche; in seconda battuta, separa la Grecia da
Cipro e, terzo, taglia in due il Mediterraneo, creando problemi
geopolitici sulla libertà di navigazione e la posa di gasdotti fra
Israele, Cipro, Grecia e l’Italia.
L’aggressività marittima dimostrata da Ankara non deve,
comunque, essere letta con la sola chiave politico-economica che
le ha fatto imboccare la rotta della politica del “Navtex”, una
sorta di nuova "diplomazia delle cannoniere", usata per
proteggere e ampliare in modo aggressivo i suoi confini
marittimi. Il veemente, e prepotente, attivismo turco in mare e in
politica estera deve essere anche letto in chiave interna in un
momento nel quale, per effetto delle numerose epurazioni, la
figura del presidente Erdogan non sembra brillare in modo
particolare. A ciò si aggiunge anche il tentativo di proporsi al
mondo musulmano come un riferimento politico, in grado di
sfidare la potenza occidentale anche nel campo religioso. Ricordo
ancora, a tal proposito, le decisioni relative alla già citata Santa
Sofia, dello scorso luglio, e la trasformazione in moschea il 21
agosto scorso di un reliquiario della tradizione cristiana bizantina
a Istanbul, la chiesa di San Salvatore in Chora.
Come confermano i più importanti analisti internazionali, il
sogno e la determinazione turchi di appropriarsi delle acque
comprese tra Creta, l’Anatolia e Cipro non svanirà quando il
presidente non sarà più Erdogan. Ma se gli Stati Uniti
indulgessero ulteriormente nel sostegno aprioristico ad Atene,
Ankara uscirebbe definitivamente dall’orbita occidentale.
D’altro canto, l’atteggiamento turco allarma non solo l’Ue ma
anche la leadership degli Stati Uniti. All’inizio del 2019,

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Washington ha revocato l’embargo sulle armi a Cipro e ha inoltre
concluso un trattato sullo spiegamento di basi militari, la
modernizzazione degli aerei da combattimento F-16 e l’acquisto
di nuovi jet F-35. In risposta, la Turchia ha continuato ad
aumentare la sua potenza militare nella regione. Ciò è dimostrato
dall’adozione della nave d’assalto anfibia multiuso “Anadolu”
per il servizio nel 2020 e la progettazione di sei sottomarini di
tipo 214. Allo stesso tempo, Ankara ha istituito una base militare
sul territorio della Repubblica turca di Cipro del Nord, dove
vengono dispiegati gli ultimi UAV turchi “Bayraktar”. L’uso
della forza per la risoluzione delle questioni regionali spinge
Ankara alla giustificazione ideologica della sua politica estera, in
particolare in Libia. Attualmente, il concetto di “Blue
Motherland” viene attivamente diffuso all’interno del Paese.
Secondo la sua tesi, la Turchia ha storicamente il diritto di
fingere nei vasti territori del Mar Egeo e del Mediterraneo.
Rimarca Teodoro Dalavecuras in un documento report per
starmag.it: “C’è un lato della questione dei rapporti tra Grecia e
Turchia che non riguarda il merito delle rispettive posizioni, ma
il ruolo del diritto internazionale. Ormai le rivendicazioni della
Turchia sono sempre meno ancorate a una – fosse pure speciosa
– argomentazione di diritto internazionale, ma solo alla
determinazione ‘del popolo turco’ a rivendicare i propri diritti;
ricordano il mussoliniano ‘noi tireremo diritto’ o magari la storia
che ‘ci prende alla gola’, con una tattica di fatti compiuti
(violazioni sistematica dello spazio aereo ellenico e, di recente,
vere o presunte prospezioni geologiche con abbondante scorta di
navi militari in zone marittime appartenenti alla piattaforma
continentale greca). È anche significativo che la Turchia sia tra i
pochi paesi al mondo che non hanno mai aderito alla
Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10
dicembre 1982, che pure costituisce la cornice giuridica degli
accordi sulle Zee.
Naturalmente non è solo né principalmente quello del diritto
internazionale il tema (nelle questioni giuridiche, come nelle
religiose vale sempre il napoleonico ‘Parigi val bene una messa’).
Il punto principale è che l’espansionismo della Turchia nel
Mediterraneo, se non ha valide motivazioni giuridiche, ha pur
sempre un fondamento concreto. Negli ultimi sessant’anni la
Turchia, dalla nazione agricola di meno di 30 milioni di abitanti
che era è diventata una potenza regionale di quasi 90 milioni, con
un’economia sviluppata seppure su basi fragili, una consistente

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industria militare esportatrice e oggi una pericolosissima capacità
decisionale fondata sui poteri dittatoriali, ancorché ‘a termine’,
del presidente della Repubblica. È inevitabile che la Turchia
‘sgomiti’ nel Mediterraneo (come lo fa in Africa, peraltro), con o
senza Erdogan, e che a una qualche redistribuzione negoziata di
aree d’influenza anche sul piano formale prima o poi si dovrà
arrivare’.
Intanto, il Sultano rafforza il controllo turco. Muove la sua flotta
nel Mediterraneo orientale, piazza i suoi fedelissimi in Paesi
strategici, sfida l’Europa con il ricatto dei migranti, negozia alla
pari con la Russia di Putin, riempie di milizie al suo soldo la
Libia, il nord della Siria, dove continua la pulizia etnica contro i
curdi siriani e la “sunnificazione” del Rojava. Ed ora la sua
longa mano si allunga fino al Caucaso schierandosi con
l’Azerbaijan nel conflitto in atto con l’Armenia. E tutto questo
restando all’interno della Nato. Un’alleanza sempre più slabbrata.

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