Cosa ci racconta quel pianto disperato della bambina palestinese
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Cosa ci racconta quel pianto disperato della bambina palestinese

Pensate al dolore di quella bambina, e pensate che come lei ce ne sono tante in Palestina. Israele lo chiama “diritto di difesa. L’esercito israeliano riducesse quella casa in un ammasso di macerie

Una bambina palestinese
Una bambina palestinese
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

11 Agosto 2020 - 17.00


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Guardate quel video. Provate a immedesimarvi in quella bambina che piange disperata sulle rovine della casa in cui fino a poche ore prima viveva con i suoi genitori. Il suo rifugio, l’unica cosa che aveva. Prima che l’esercito israeliano riducesse quella casa in un ammasso di macerie. Pensate al dolore di quella bambina, e pensate che come lei ce ne sono tante in Palestina. Israele lo chiama “diritto di difesa”.
Ma che “diritto” è quello di demolire una casa perché un componente della famiglia che ci abitava, era ricercato perché ritenuto un pericolo per Israele. Demolire case non è un “diritto”. E’ un crimine. E’ una odiosa forma, non l’unica, di punizione collettiva. Quella bambina in lacrime racconta di una condizione insopportabile, di una infanzia violata, di un trauma che l’accompagnerà per sempre. Sono perquisiti ai checkpoint, anche mentre vanno a scuola, molti vengono arrestati e gli atti di tortura cominciano al momento dell’arresto.
Israele, ogni anno, persegue sistematicamente tra i 500 e i 700 bambini palestinesi nei tribunali militari, senza alcun diritto di consulenza legale durante l’interrogatorio e con rara esclusione da parte dei giudici della corte militare israeliana. In questo senso Israele è l’unico Stato al mondo a processare minori davanti alle corti militari. Il bambino preso viene bendato e caricato in un veicolo, dove comincia il primo interrogatorio. Chi viene arrestato viene sistematicamente aggredito verbalmente, fisicamente e psicologicamente.
I bambini vengono fermati con la “colpa” di aver lanciato pietre ai soldati israeliani (spesso senza successo) o semplicemente perché si trovavano fuori dalle zone autonome palestinesi senza permesso. L’arresto è utilizzato anche come un modo per scoraggiare i bambini dal partecipare a dimostrazioni. L’arresto dei minori tende alla distruzione del futuro della generazione palestinese. I bambini fin dall’età più tenera sono costretti ad assistere a vicende orrende, come la demolizione o la perquisizione della propria casa o della loro scuola, il maltrattamento dei loro genitori, fratelli o persino la morte dei loro amici e parenti. Traumi che lasciano su di loro una traccia indelebile.
Attualmente, più di 190 bambini palestinesi sono in detenzione nelle carceri israeliane, la maggior parte dei quali sono in detenzione preventiva senza essere stati condannati per alcun reato. Questo nonostante le richieste delle Nazioni Unite di liberarli prima che si diffonda il Coronavirus. Loai, 18 anni, è stato rilasciato alla fine di aprile 2020 dopo tre mesi di prigione. Aveva 17 anni quando fu incarcerato e ha condiviso la sua cella con altri cinque minori. Quando è iniziata la pandemia di Coronavirus, dice che i ragazzi non sono stati informati: “Non ci è stato detto nulla su come proteggerci dal Coronavirus, ad esempio su come è importante lavarci le mani”. Ma le regole della prigione sono cambiate: “Ora i minori possono uscire solo un’ora al giorno. Durante la mia detenzione, le guardie carcerarie hanno disinfettato le strutture solo due volte, tra cui le docce, le scale e il corridoio, ma non le nostre celle, nemmeno una volta. Ci hanno dato una bottiglia di disinfettante che è durata circa 15 giorni e poi quando è finito non ci hanno dato più nulla”, racconta Loai ai volontari di Save The Children. Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Lei vive nella Striscia di Gaza. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni. Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro. Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico. Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre. Sono solo alcune delle tante storie di dolore, di violenza, di cui i bambini palestinesi sono vittime.
Ora tornate a guardare quel video. E pensate che tutto ciò avviene nel silenzio complice della comunità internazionale. E allora, se siamo ancora umani, anche noi dovremmo versare lacrime. Di dolore. Di rabbia. Di vergogna.

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