Il Sultano e lo Sceriffo: come nasce un amore in spregio della democrazia
Top

Il Sultano e lo Sceriffo: come nasce un amore in spregio della democrazia

Si piacciono e molto Recep Tayyp Erdogan e Donald Trump. E non fanno nulla per nasconderlo. Si piacciono al punto di stringere patti, sulla pelle dei curdi siriani del Rojava spazzati via dalle armate di Ankara

Erdogan e Trump
Erdogan e Trump
Preroll

Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

9 Giugno 2020 - 14.37


ATF

Il Sultano e lo Sceriffo si piacciono e molto. Condividono la stessa idea di “democratura” (felice definizione del compianto grande scrittore Predrag Matvejevic): una dittatura mascherata da democrazia. Si piacciono e molto Recep Tayyp Erdogan e Donald Trump. E non fanno nulla per nasconderlo. Si piacciono al punto di stringere patti, sulla pelle, e non è una metafora, dei curdi siriani del Rojava spazzati via dalle armate di Ankara, con il sostegno dei tagliagole reclutati tra i jihadisti, con il benestare dell’inquilino, si spera ancora per poco, della Casa Bianca.

“Tante persone dimenticano convenientemente che la Turchia è un grande partner commerciale degli Stati Uniti, infatti realizzano il telaio in acciaio per il nostro caccia F-35. Sono stati anche corretti nelle relazioni, aiutandomi a salvare molte vite nella provincia di Idlib e rimandando indietro, in ottima salute, su mia richiesta, il pastore Brunson, che aveva molti anni da scontare in carcere. Ricordo inoltre, e soprattutto, che la Turchia è un membro importante nella buona reputazione della Nato. Sarà mia ospite negli Stati Uniti il 13 novembre”, così twittava Trump il 9 ottobre 2019, dando luce verde alla pulizia etnica turca nel Nord della Siria.

Il Sultano e lo Sceriffo

Una eccezione, sia pur spregevole? Macchè. Facciamo un passo indietro nel tempo. “Se sarò eletto presidente non farò pressioni sulla Turchia o su altri alleati autoritari che conducono purghe sui loro avversari politici o riducono le libertà civili. Gli Stati Uniti devono risolvere i loro problemi prima di cercare di cambiare il comportamento di altri Paesi”. Parola di Donald Trump in un’intervista al News York Times, alla vigilia dell’accettazione della sua nomination presidenziale alla convention repubblicana di Cleveland (estate 2016).

“Gli Stati Uniti – affermò in quell’occasione Trump – non hanno il diritto di dare lezioni ad altri Paesi”. Il tycoon ha quindi elogiato il presidente turco, Recep Tagyyp Erdogan: “Gli do grande credito – ha spiegato – per essere stato capace di ribaltare la situazione dopo il tentativo di golpe”. Il candidato repubblicano ha aggiunto: “Alcuni dicono che il tentativo di colpo di stato sia stato provocato ad arte, ma io non lo credo”. Trump non intende quindi unirsi al coro di chi invita Ankara alla moderazione nel reprimere gli oppositori rispettando gli standard occidentali della giustizia: “Quando il mondo vede quanto male le cose vanno negli Stati Uniti – sentenziò  – e si comincia a parlare di libertà civili, non penso che noi siamo dei messaggeri credibili “.

Leggi anche:  Trump incontra Biden per discutere della transizione e si scusa per i toni della campagna elettorale

Una “nuova era”

Ma veniamo ai giorni nostri. Giorni infuocati in un’America in rivolta. Secondo quanto comunica l’agenzia di stampa turca Anadolu, il presidente Erdogan ha chiamato Donald Trump per discutere di “relazioni bilaterali, questioni regionali e crisi libica”. – “Nuova era” nella gestione delle crisi, in particolare quella libica, tra Turchia e gli Stati Uniti. Lo ha detto il Sultano durante la  telefonata con lo Sceriffo in una dichiarazione ripresa dall’emittente turca Tnt.

In una dichiarazione l’ufficio della comunicazione della presidenza turca ha detto che i due leader “hanno affrontato le relazioni bilaterali e gli ultimi progressi regionali, in particolare la crisi in Libia” concordando di “mantenere una stretta cooperazione affinché la pace e la stabilità siano raggiunte in Libia”.

“Abbiamo discusso anche la questione libica. E’ un segnale di un nuovo periodo tra Turchia e Usa”, ha detto Erdogan secondo l’emittente.

Da parte sua, il portavoce della Casa Bianca, Judd Deere, in una dichiarazione, ha affermato che “Erdogan e Trump hanno discusso delle relazioni critiche e regionali, principalmente la Siria, la Libia ed il Mediterraneo orientale”. Il che significa: l’America appoggia la Turchia nella spartizione, non solo territoriale, della Libia, così come sostiene il progetto turco di creare un “protettorato ottomano”, affidato alle milizie pro-Ankara, nel Nord della Siria.

Via libera in Libia

Si piacciono e tanto i due. In politica estera, ora anche sulla Liba (alla faccia dell’amico “Giuseppi”) e soprattutto per come concepiscono l’opposizione e i diritti delle minoranze, che poi tanto minoranze, almeno in America, non sono più. Una visione molto semplice: gli oppositori sono una minaccia alla sicurezza nazionale, e dunque vanno trattati come pericolosi nemici, contro cui scatenare l’esercito, la Guardia nazionale, i servizi segreti e via elencando. Certo, The Donald deve contenersi un po’ di più del suo omologo turco, visto che in America esiste ancora una stampa libera, cosa che non si può dire per la Turchia del “Gendarme” islamo-nazionalista, che ha riempito le patrie galere di decine di migliaia di oppositori. E tra essi, centinaia di giornalisti che avevano osato praticare qualcosa che Erdogan giudica una colpa da carcere a vita: la libertà d’informazione.

Leggi anche:  Hegseth e Gaetz: due candidati di Trump per il governo in pericolo per accuse di molestie sessuali

Si piacciono i due. E non fanno nulla per nasconderlo, neanche nelle amorevoli lettere o telefonate che si scambiano. In una recente telefonata, ad esempio, Erdogan avrebbe detto a Trump che è preoccupato che i gruppi che si stanno rendendo protagonisti delle proteste e, nella minoranza dei casi, dei saccheggi, siano collegati ai gruppi dei curdo-siriani del Pkk/Pyd-Ypg, che hanno combattuto contro l’Isis ma che per Erdogan sono dei “terroristi”.

Il Sultano non si arrischia a consigliare all’amico americano come zittire questi “criminali”. Non ne ha bisogno, perché The Donald e i suoi consiglieri lo sanno bene: le città turche a maggioranza curda assediate per mesi e rase al suolo: centinaia i morti, accertati, migliaia i feriti, i desaparecidos e gli arrestati. Quanto ai parlamentari dell’opposizione, nessun problema: prima li si dimissiona e poi li si arresta. Che vuoi che sia per un simil autocrate qualche afroamericano soffocato a morte o giustiziato a freddo da un poliziotto: piccoli effetti collaterali della “democratura”.

L’amorevole letterina

 “Credo che sconfiggeremo il Covid-19 grazie ai nostri sforzi comuni, che le lezioni che impareremo da questa battaglia e le nuove opportunità che svilupperemo nel campo della sanità pubblica ci permetteranno di avanzare in modo più sicuro verso il futuro”. Così scrive Erdogan a Trump in una lettera inviata all’omologo statunitense, il 29 aprile scorso, insieme al cargo di aiuti sanitari di Ankara giunti negli Usa, che contiene mascherine, altri dispositivi di protezione individuale e disinfettanti. Nella missiva, Erdogan si rivolge a Trump chiamandolo “Signor Presidente, caro amico” e sottolinea il ruolo dell’alleanza tra Turchia e Stati Uniti, augurandosi che “in futuro e alla luce della cooperazione che abbiamo mostrato durante l’epidemia il Congresso e la stampa americana comprenderanno meglio l’importanza strategica delle nostre relazioni e della nostro lotta comune nelle sfide comuni”.

Il “caro amico” incassa e porta a casa. Non solo le mascherine.

Il sogno del tycoon

Ed ora ai lettori di Globalist sveliamo il sogno proibito di The Donald: fare dell’America una “Trumpland” come il suo sodale del Bosforo ha fatto della Turchia una sorta di “Erdoganistan: un Paese senza libertà né diritti, retto da un regime islamo-nazionalista che sfruttando uno pseudo golpe ha realizzato il disegno che covava da tempo: risolvere manu militari il problema curdo, azzittire la stampa indipendente, riempire le patrie galere di giornalisti, professori universitari, funzionari pubblici, attivisti dei diritti umani. E ora anche di parlamentari dell’opposizione.

Leggi anche:  Il conduttore di Fox Hegseth futuro ministro della difesa coinvolto in un caso di aggressione sessuale

Ora, Trump non può svelare il suo sogno, ma a farlo ci pensano i suoi miliziani suprematisti, quelli del white power.

Ma The Donald ha davvero un debole per presidenti autocrati: quelli che risolvono manu militari il problema degli oppositori, che riempiono le prigioni di chi, e sono centinaia di migliaia, non la pensano come loro: quelli che militarizzano le piazze.

Uno di questi, è il Faraone del Cairo: il presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi.

Dieci aprile 2019. Trump riceve alla Casa Bianca il suo omologo egiziano. Ai giornalisti presenti in conferenza stampa hanno chiesto al presidente americano se abbia affrontato con il suo omologo il tema della recente riforma costituzionale, che permette ad al-Sisi di estendere il proprio mandato fino al 2034. “E’ un grande presidente. Tutto quello che posso dire è che sta facendo un grande lavoro”, la replica di Trump, stando a quanto riportano i media internazionali.

“Grazie davvero per tutto il sostegno che gli Stati Uniti ci stanno dando su tutti fronti. E’ questo ciò che cerchiamo, per promuovere i rapporti bilaterali in vari campi: politico, economico, militare, culturale e non solo”, ha dichiarato da parte sua al-Sisi.

Naturalmente, neanche un minimo accenno al tema dei diritti umani, calpestati dal “grande presidente”, alla tortura come pratica quotidiana, alla più brutale repressione di ogni forma di espressione critica. E lo stesso canovaccio si ripete con il presidente fascio del Brasile, Jair Bolsonaro, Entrambi condividono lo stesso stile di conservatorismo populista, e Bolsonaro ha basato la sua fortunata campagna del 2018 sulla falsariga di quella che ha portato Trump alla Casa Bianca nel 2016. Il presidente brasiliano non nasconde l’ammirazione per la sua controparte americana e gli piace che critici e ammiratori lo abbiano definito come “il Trump dei tropici”.

“È un grande onore avere il Presidente del Brasile con noi. È un uomo eccezionale, sta facendo un ottimo lavoro. La nostra relazione non è mai stata così stretta. Ed è bello averti qui “, lo elogia Trump ricevendolo nella sua residenza a Mar-a-Lago, Palm Beach ( 8 marzo 2020).  

Che volete: allo Sceriffo piacciono i suoi simili. Brutta gente.

Native

Articoli correlati