di Antonio Salvati
La storia dell’umanità è un lungo restringersi del numero dei reati per cui era comminata la pena di morte e delle esecuzioni, dal Codice di Hammurabi, circa 3800 anni fa, che codificava la pena di morte per 25 reati, ma non per l’omicidio, alla prima abolizione da parte di uno Stato, nel mondo occidentale, il Granducato di Toscana, che abolì la pena capitale nel 1786, sulla spinta del pensiero di Beccaria e di un governante illuminato, Pietro Leopoldo di Toscana. Dall’ultimo Rapporto di Amnesty International sulla pena capitale nel mondo arrivano nuovamente segnali incoraggianti e di speranza. Il superamento generalizzato della pena di morte segnala la volontà di porre al centro dei rapporti giuridici, ma anche dei rapporti internazionali, un modello della giustizia più adatto ai nostri tempi.
Nel 1977 solo 16 paesi avevano abrogato completamente la pena capitale, oggi sono 106. Il trend globale verso l’abolizione dell’ultima punizione crudele, inumana e degradante procede, anche se alcuni paesi stanno invertendo la tendenza. Il numero delle esecuzioni è diminuito del 5% rispetto al 2018, raggiungendo il valore più basso registrato in almeno dieci anni e confermando così la riduzione anno per anno in atto dal 2015. Seppur nessun paese abbia abolito la pena di morte nel 2019, alcuni segnali positivi attestano come il desiderio di mantenimento della pena si stia riducendo in quei paesi che sono ancora lontani dall’abolirla. Negli USA, il New Hampshire è diventato il 21esimo stato ad abolire la pena capitale per tutti i reati. Il governatore della California, lo Stato con la più alta percentuale di detenuti nel braccio della morte, ha istituito una moratoria sulle esecuzioni. Kazakistan, Federazione russa, Tagikistan, Malesia e Gambia hanno continuato a osservare una moratoria ufficiale sulle esecuzioni. Interventi positivi o pronunce che potrebbero preludere a una abolizione totale, si sono avute nella Repubblica Centrafricana, Guinea Equatoriale, Gambia, Kazakistan, Kenya e Zimbabwe.
Sono state almeno 657 le esecuzioni registrate nel 2019, con una diminuzione del 5% rispetto al 2018 (almeno 690). È il più basso numero di esecuzioni registrato negli ultimi dieci anni. Rispetto al 2018, il numero delle esecuzioni si è notevolmente abbassato in Egitto (da più di 43 a più di 32), Giappone (da 15 a 3) e Singapore (da 13 a 4). Purtroppo, le esecuzioni sono aumentate in modo significativo in Iraq (da più di 52 a più di 100), Arabia Saudita (da 149 a 184), Sudan del Sud (da più di 7 a più di 11) e Yemen (da più di 4 a 7).
L’81% di tutte le sentenze capitali sono state eseguite in Iran, Arabia Saudita e Iraq. L’Asia resta, dunque, il continente dove prevalentemente si applica la pena capitale. Le 184 esecuzioni documentate in Arabia Saudita sono il valore più alto mai registrato, in un anno, nel paese, riconducibile all’impiego della pena capitale come arma politica contro i dissidenti. Sono state registrate esecuzioni solo in 20 paesi, come nel 2018. Tuttavia, qualcosa è cambiato: Afghanistan, Taiwan e Thailandia non hanno eseguito sentenze capitali nel 2019, mentre lo avevano fatto nel 2018. Il Bahrain e il Bangladesh hanno ripreso le esecuzioni, dopo che non ne avevano fatta registrare alcuna nel 2018.
Il valore totale delle condanne a morte comminate a livello globale nel 2019, pari a 2.307, fa registrare un decremento rispetto al valore complessivo del 2018, 2.531. Quattro paesi hanno comminato la pena capitale nel 2019 dopo una interruzione: Malawi, Maldive, Niger e Trinidad e Tobago. Ciad, Libia e Papua Nuova Guinea, tre paesi che nel 2018 avevano imposto la pena capitale, non hanno fatto registrare condanne a morte nel 2019. Diminuzioni significative nell’imposizione di sentenze capitali rispetto al 2018 in Repubblica Democratica del Congo (da 41 a 8), Egitto (da più di 717 a più di 435), India (da 162 a 102), Iraq (da più di 271 a più di 87), Kuwait (da 34 a più di 5), Libia (da più di 45 a nessuna condanna), Mali (da 18 a più di 4), Palestina (da 13 a 4) e Thailandia (da più di 33 a più di 16). Al contrario, un numero significativamente più elevato di condanne a morte, rispetto al 2018, in Indonesia (da più di 48 a più di 80), Kenya (da più di 12 a più di 29), Libano (da più di 5 a 23), Pakistan (da più di 250 a più di 632), Sierra Leone (da 4 a 21), Sudan (da 8 a più di 31), Tunisia (da più di 12 a più di 39), Yemen (da più di 13 a 55) e Zambia (da più di 21 a 101).
Alla fine del 2019, almeno 26.604 persone erano detenute nei bracci della morte in tutto il mondo. Rilevate commutazioni o provvedimenti di grazia in 24 paesi: Bangladesh, Cina, Egitto, Gambia, Ghana, Guyana, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Iraq, Kuwait, Malesia, Mauritania, Marocco/Sahara occidentale, Niger, Nigeria, Oman, Pakistan, Singapore, Stati Uniti d’America, Sudan, Thailandia, Zambia, Zimbabwe.
La pena di morte ha continuato a essere applicata, nel 2019, con modalità che violavano gli standard internazionali: almeno 13 esecuzioni pubbliche sono state registrate in Iran e sei persone, 4 in Iran, una in Arabia Saudita e una nel Sudan del Sud, sono state messe a morte per reati commessi quando avevano meno di 18 anni. Si ritiene che minorenni condannati a morte negli anni passati siano tuttora detenuti nei bracci della morte di Arabia Saudita, Iran, Maldive, Pakistan e Sudan del Sud. Nella maggior parte dei paesi in cui le persone sono state condannate o messe a morte, la pena capitale è stata comminata dopo procedimenti giudiziari non in linea con gli standard internazionali sul giusto processo. Fra di essi, Arabia Saudita, Bahrain, Bangladesh, Cina, Corea del Nord, Egitto, Iran, Iraq, Malesia, Pakistan, Singapore e Vietnam.
Dati, dunque, decisamente importanti che aiutano, direttamente ed indirettamente, la convivenza e la pace nel mondo globalizzato. Affinché il rifiuto della pena di morte giuridicamente inflitta rappresenti sempre più anche il rifiuto delle troppe pene di morte di fatto che il mondo contemporaneo, in forza delle guerre, delle ingiustizie economiche, delle prevaricazioni nell’ambito di regimi oppressivi o, anche, delle condizioni di vita nelle carceri di molti Paesi, continua a tollerare.