di Enzo Verrengia
Eppur si muove. La gioventù. Dopo la generazione che Michele Serra ha definito nel titolo del suo libro “gli sdraiati” e l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa-Schioppa “bamboccioni”, sembra che una nuova onda scuota le masse che spuntano alla vita. Matteo Renzi, fra le coordinate più importanti di “Italia viva”, indica una trazione giovanile.
Ma è sullo scenario geopolitico che i nuovi movimenti giovanili fanno sentire ormai da oltre un decennio la loro rinnovata energia. Ultimo, in ordine cronologico, il caso di Hong Kong. Nell’ex colonia britannica, l’incombere del gigante cinese viene avvertito come un fattore di soffocamento alle istanze di una micronazione abituata al capitalismo e all’hi-tech per poi ritrovarsi improvvisamente retrocessa al collettivismo verticistico imposto da Pechino. Le manifestazioni sono cominciate il 1º luglio scorso, 22º anniversario della “restituzione” effettuata dal Regno Unito nel 1997. Fra cariche della polizia e arresti, si chiedevano le dimissioni di Carrie Lam, la governatrice imposta dalla madrepatria. Finora i disordini non accennano a diminuire, malgrado i media tendano ad accantonarle in favore della cronaca e della politica interna. Soprattutto per non urtare la suscettibilità dell’apparato cinese, le cui decisioni commerciali sono determinanti per la crisi economica mondiale.
In parallelo, guadagna posizioni a vista d’occhio l’allarme ecologico lanciato da Greta Thunberg, e subito raccolto da milioni di giovani in tutto il mondo. Il 15 marzo di quest’anno venerdì 15 marzo 2019 si è tenuto lo sciopero globale per il clima, Global Strike for Future, con l’adesione di 40 Paesi, compresa l’Italia.
Sospesa fra desideri e rinunce, presunzioni e sconfitte, ideali e compromessi, la gioventù non smette di costituire il laboratorio a termine di ogni modello societario, economico e civile.
La primavera araba fu una rivoluzione soprattutto giovanile, corsa su Internet. Mail, sms, chat, videoregistrazioni postate su YouTube, collegamenti con gli smartphone. Sarah, una blogger egiziana, aggirò la cortina elettronica imposta dal Cairo nei giorni della caduta di Mubarak. La protesta partì da una pagina Facebook, WeAreAll Khaled Said, intitolata al ventottenne torturato e ucciso da due poliziotti che applicavano la legge di emergenza.
Poi la primavera di giovani costretti all’inverno della precarietà evocato dalla fine del welfare arrivò anche sulle rive settentrionali del Mediterraneo.
In Spagna i giovani fondavano “Democrazia Real Ya!” ed occupavano i grandi spazi centrali delle città, epicentri del senso comunitario. La Plaza Catalunya di Barcellona veniva ribattezzata “Plaza Tahrir”, come quella del Cairo in cui era divampata la rivolta contro la tirannia di Mubarak. La Commissione elettorale centrale parlava di “concentrazioni illegali”. Il dissenso si allargava a Siviglia, Caceres, Granada, Saragozza, Valencia. Qui, con mesi di anticipo sugli americani, 300 giovani occuparono la sede del Banco di Valencia, e cantavano: «Perché vincono i banchieri se non li abbiamo votati?».
Dopodiché, si allargava l’onda lunga dell’indignazione giovane: Buenos Aires, Bruxelles, Edimburgo, Bogotà, Città del Messico, Parigi, Berlino. Ed oltre.
Indignati per le vie e sui ponti delle metropoli americane, da New York a Chicago, con focolai a Los Angeles e dovunque. A Boston, Denver, Filadelfia e poi Manhattan crebbe il movimento giovanile venuto allo scoperto con occupazioni per nulla provvisorie ed improvvisate di nodi nevralgici come il ponte di Brooklyn. I giovani alzavano la voce contro lo scippo del sogno americano. Le chiamarono General Assemblies e ricordavano parecchio il Tea Party di Boston. La notte del 16 dicembre 1773 un gruppo di ribelli al seguito di Sam Adams e Paul Revere camuffati da pellirosse assaltarono tre navi inglesi della Compagnia delle Indie ancorate nel porto e gettarono in mare 343 casse di tè. Fu l’inizio della guerra per l’indipendenza degli Stati Uniti. Adesso i giovani indignati riproponevano quella voglia di affrancamento che sfidava le regole spietate del turbocapitalismo. Lo slogan era “persone non profitti”. Ci si opponeva all’intervento pubblico per salvare quelle stesse banche colpevoli di avere trascinato nell’indigenza migliaia di utenti con mutui a carico. Lo dimostra l’assembramento dinanzi alla sede della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti, i cui vertici hanno in pugno la sorte di milioni di cittadini.
L’avversione per gli istituti di credito risuonava a Zuccotti Park ed a Liberty Plaza Park, luoghi deputati della sommossa di New York. Il grido era in spagnolo, anche per ricongiungersi agli indignados della Puerta del Sol: «Abajo los bancos!» Abasso le banche. Fu pubblicato un contro-quotidiano, The Occupied Wall Street Journal, e si chiedevano lezioni di economia al Premio Nobel Joseph Stiglitz ed a Jeff Madrick, che aveva appena pubblicato il best-seller Age of Greed, l’era dell’avidità.
Alberto Ronchey, negli anni ’70, le chiamò “aspettative crescenti”. Per stampare il marchio dell’eccesso sul semplice bisogno giovanile di un futuro certo, garantito, umano.