Daje ragazzi, nun se po’ sbaja’
Su c’è er Maestro che ce sta a guardà”
I versi finali della canzone-inno di Aldo Donati hanno sancito per sempre il rapporto fra Tommaso Maestrelli e la Lazio e i suoi tifosi: Tommaso è il Maestro che ci guarda dall’alto, che ci protegge e ci giudica.
E’ giusto ribadire che Tommaso Maestrelli è un mito (si abusa oggi di questa parola ma qui è appropriata) non soltanto per noi laziali ma per tutto il calcio italiano. Quando si ammalò, era pronta per lui la panchina della Nazionale, giusta considerazione del suo lavoro che aveva portato la squadra di una società sempre in lotta contro il fallimento continuamente in agguato, a vincere uno scudetto contro gli squadroni del Nord molto più ricchi e meglio attrezzati.
Tommaso fu un esempio per tutti, non soltanto come maestro di calcio ma anche nella vita: un partigiano, un uomo onesto, un personaggio dalla grande umanità. Un tecnico che amava i suoi giocatori come un padre ama i propri figli e che proprio sull’amore aveva fondato la sua squadra straordinaria sulla quale nessuno avrebbe puntato un soldo bucato e che si basava, stando al racconto che loro stessi hanno più volte fatto, su una banda di scapestrati in lotta fra di loro per rivalità che esulavano dal calcio e che nel calcio, grazie a Maestrelli, riuscivano a ritrovare una magica unità.
Ci sono alcuni momenti di Tommaso che sono rimasti impressi nella nostra memoria. Il più indelebile è Tommaso al fischio finale di Panzino che decreta lo scudetto. Tommaso è sorretto da Lovati e si tiene una mano sul cuore per non morire dall’emozione. L’altra è una foto “rubata” di Tommaso con la moglie accanto su un balconcino della clinica Paideia dove è ricoverato per la malattia che se lo porterà via. Da lì cerca di vedere con il binocolo i suoi ragazzi che si allenano sul campo di Tor di Quinto.
Il popolo laziale venne a sapere della malattia di Maestrelli prima della partita con il Torino, l’anno dopo la vittoria dello scudetto. Si diceva che non sarebbe stato in panchina quella domenica perché indisposto, noi stavamo tranquilli perché pensavamo a un malanno di stagione ma prima della partita i ragazzi raccattapalle sfilarono sulla pista dell’Olimpico con uno striscione dove si leggeva “Viva Maestrelli”. Capimmo che si trattava di una malattia seria. Anche i giocatori, i suoi ragazzi, sapevano e giocarono una partita disastrosa.
Con la sua malattia cominciò l’opera di demolizione della Lazio: due giocatori, Oddi e Frustalupi, due colonne dello scudetto, vengono ceduti al Cesena. Anziché lasciare la squadra a Lovati, il secondo di Maestrelli, Lenzini ingaggia come allenatore tal Corsini che si mette subito in contrasto con i vecchi, Chinaglia in primis, e la Lazio finisce per trovarsi in zona retrocessione. A questo punto una sorta di miracolo ci restituisce Maestrelli, il quale sembra guarito dal tumore. Lenzini ora può restituire alla squadra il “suo” allenatore che la porterà alla salvezza.
Tommaso muore il dicembre del 1976 dopo aver compiuto un altro miracolo per la sua Lazio.
Tommaso Maestrelli, partigiano, maestro di calcio e di vita
Un tecnico che amava i suoi giocatori come un padre ama i propri figli e che proprio sull’amore aveva fondato la sua squadra straordinaria. La Lazio del primo scudetto.
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Giancarlo Governi Modifica articolo
2 Dicembre 2018 - 22.05
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