Dalla Nato alla Ue, dai siriani a Putin: la partita su quattro tavoli di Erdogan
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Dalla Nato alla Ue, dai siriani a Putin: la partita su quattro tavoli di Erdogan

Ankara deve riuscire in un difficile gioco di equilibri tra la fedeltà alla Nato, il desiderio di entrare nell'Ue, gestire i profughi siriani e strizzare l'occhio a Putin

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27 Marzo 2018 - 09.22


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Mantenersi nella Nato, avvicinarsi all’Unione Europea, ottenere ancora fondi per gestire i migranti dalla Siria e, al tempo stesso, coltivare una relazione speciale con la Russia di Vladimir Putin. Un gioco finora riuscito a Recep Tayyp Erdogan, che ha saputo sfruttare le debolezze e le incertezze dei suoi interlocutori che rendere se stesso più forte all’interno della Turchia, e questa più forte all’interno del Medioriente. Lo racconta molto bene Nicola Graziani sull’Agi. Non è un caso che l’incontro di Varna, con i vertici dell’Ue, giungano all’indomani della presa di Afrin, in Siria, e la conseguente fuga dei miliziani curdi dello Ypg. 

L’ultima e la più clamorosa di una serie di iniziative militari che hanno visto Ankara utilizzare i propri militari, con sempre meno sgomento da parte della comunità internazionale, oltre il proprio confine meridionale. Un secolo fa quel confine veniva tracciato per tenere separati i turchi ex dominatori dai popoli arabi appena tornati all’indipendenza; oggi Erdogan ha realizzato il progetto enunciato nel 1991 da Turgut Ozal, quello di una riassunzione di responsabilità (parole sue) dei primi nei confronti dei secondi.

Il fatto è che quanto accaduto ad Ifrin difficilmente resterà senza conseguenze. Non si tratta solo della circostanza, di per sé sufficientemente preoccupante, che vede Erdogan promettere di andare a stanare i curdi della regione fin nei loro rifugi più sicuri. L’allargamento territoriale del conflitto potrebbe infatti sfociare in qualcosa di più grande e più grave: nella regione opera da mesi la milizia chiamata “forza di sicurezza di confine”, 30.000 uomini in maggioranza per l’appunto curdi che sono addestrati e armati dagli americani, che mantengono una presenza militare al loro fianco.

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Può la Turchia, membro della Nato, permettersi uno sgarbo così grande nei confronti del suo principale alleato? Finora, in effetti, Erdogan ha evitato una provocazione così aperta, ma ha intensificato i segnali di insofferenza nei confronti degli partner europei dell’Alleanza, come quando ha impedito per settimane e settimane l’accesso alla base di Incirlik, dove operano militari tedeschi, ad una delegazione del Bundestag.  E soprattutto lo scorso dicembre ha accettato di acquistare direttamente da Putin due batterie di missili S-400 terra-aria.

Al di là dell’importanza simbolica del gesto, si tratta di sistemi non integrabili con quelli Nato, che dovranno essere istallati e gestiti da personale russo. Russo, su suolo turco, e sotto un cielo solcato dai caccia F-35 di nuova generazione: qualcosa di impensabile pochi anni fa. Putin, che attraverso la crisi siriana ha riportato Mosca ad avere un ruolo centrale in Medioriente dopo quasi trent’anni, segna un nuovo punto a suo favore. E non si tratta di acquisizioni di pura facciata: a Washington già si preoccupano che la presenza russa all’interno delle strutture militari turche possa portare il Cremlino ad avere accesso ad una grande quantità di dati, altrimenti riservati.

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Circostanze vissute con preoccupazione anche in Europa: i confini della Nato e dell’Ue tendono a sovrapporsi. E talvolta anche le due politiche estere, come nel caso della crisi diplomatica scatenata dall’avvelenamento dell’ex spia russa Skripal. E anche quando gli interlocutori europei sono più attenti alle esigenze russe, intervengono altri fattori a complicare le relazioni con la Turchia: è quello che accade con la Grecia: Erdogan, ancora a dicembre, è stato in visita ufficiale ad Atene. Ottimo: niente di avvicinabile accadeva dal ’52. Ma la trasferta alla fine è servita solo per constatare che su Cipro non c’è accordo, che le isole Kardak-Imia nell’Egeo continuano ad essere spopolate e contese, che i Trattati di Losanna del 1923 sono da rivedere per la Turchia, ed intoccabili per Atene.

Al di là dei rapporti bilaterali con la Grecia, sono i rapporti con l’Unione nel loro insieme ad essere problematici. I negoziati per l’adesione della Turchia ristagnano da anni, e non sono certo facilitati dalla repressione scatenata da Ankara dopo il fallito golpe di due anni fa. Bruxelles cerca una soluzione alternativa all’ingresso a pieno titolo, e propone una serie di vie d’uscita onorevoli. Ma Ankara l’ammissione a pieno titolo ha chiesto, e l’ammissione a pieno titolo pretende.

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E poi, a complicare ulteriormente le cose, c’è la faccenda dei migranti.  La scorsa settimana la Commissione Europea ha dato avvio ufficialmente all’erogazione di una nuova tranche di 3 miliardi di euro in favore di Ankara per affrontare l’emergenza dei profughi dalla Siria. Ma da una parte i partner europei hanno avviato le schermaglie per decidere chi tra loro si accollerà il peso del finanziamento; dall’altra Erdogan calcola che lui non di 3 miliardi di euro ha bisogno, ma di 30, ogni anno. Quanto poi a chi abbia giurisdizione sulla gestione dei fondi, la partita è bene aperta.  Così come è ancora aperta, un secolo dopo, la partita di fondo: a quale mondo appartenga la Turchia, impero inquieto tra due continenti. 

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