Gigi Meroni, 50 anni fa moriva l’artista del gol

Una carriera tra dribbling e reti impossibili stroncata tragicamente. La storia di un fuoriclasse anticonformista idolo di una generazione

Gigi Meroni
Gigi Meroni
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Francesco Troncarelli Modifica articolo

14 Ottobre 2017 - 21.28


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C’è chi lo considerava il George Best italiano per la vita scapigliata che conduceva e il talento innato, qualcuno invece lo chiamava Calimero come il personaggio di Carosello, per la sua zazzera folta e scura, i baffi e la barba, per tutti però era la “farfalla granata”, per quel suo correre disordinato e leggero e i continui zig zag che disorientavano gli avversari e mandavano in estasi le folle.
Ma lui era semplicemente Gigi Meroni, estroso attaccante del Toro, un giovane come tanti che amava i Beatles, il poker e la pittura e che indossava vestiti disegnati da lui e che alla giacca e cravatta d’obbligo della divisa sociale, preferiva pantaloni a zampa d’elefante, giacche quadrettate, cappelli di tutte le fogge e occhiali da sole calati sul naso anche di sera.
Un calciatore dal dribbling facile e dai gol belli e impossibili, come quello che fece contro l’Inter di Herrera (allora campione d’Italia, d’Europa e del Mondo) a San Siro. Palla stoppata al centro dell’area, poi all’altezza del dischetto del rigore e nonostante fosse circondato da mezza difesa nerazzurra, l’invenzione portentosa di un pallonetto a giro che va a infilarsi all’incrocio dei pali senza che il grande Sarti riuscisse a fare una mossa.
Un talento puro insomma, ma anche un anticonformista che il Calcio serioso e ingessato nei suoi riti ufficiali non vedeva di buon occhio, ma che invece i tifosi del Torino adoravano. Un personaggio che sarebbe passato inosservato in una Università dell’epoca o in locale da ballo, dove studenti capelloni ed adolescenti beat erano di casa, ma non nel mondo del pallone, chiuso ad ogni soffio di novità.
Gigi del resto era un irregolare in tutto. Andava in giro con una vecchia Balilla nera coi paraurti dorati ed abitava in una mansarda. Coi suoi ragionamenti, interessi e modi di vivere, anticipava il ’68 che di lì a poco avrebbe rivoluzionato il mondo. Era legato poi ad una donna sposata, la bionda e bella giostraia Cristina che da Genova dove giocava per i rossoblu lo aveva seguito a Torino, un rapporto il loro in tempi in cui le unioni al di fuori del matrimonio erano considerate scandalo vero e il divorzio fantascienza.
Ma lui era Meroni, uno che andava in campo con la maglia fuori dai calzoncini e teneva i calzettoni abbassati come Sivori e correva fino allo spasimo senza risparmiarsi, combattendo su ogni pallone come combatteva contro i pregiudizi e le imposizioni di un paese bacchettone. Lui era un fuoriclasse in tutti i sensi. Entrava al Filadelfia con la maglia numero 7 sulle spalle e faceva impazzire i tifosi e le ragazze. Era simpatico, alla mano, generoso e con tanta personalità.
Nereo Rocco voleva rispedirlo al Genoa, poi ne capì il talento e lo lasciò libero di giocare a piacimento. Lo aspettava un radioso avvenire come calciatore, lo sport in cui aveva fatto vedere cose bellissime e in cui aveva iniziato una carriera da protagonista, tra palleggi alla brasiliana, fughe verso la vittoria, finte, controfinte e 32 reti in 170 partite. Ma a 24 anni finì tutto tragicamente.
Era il 15 ottobre 1967, una domenica proprio come oggi, di 50 anni fa. Il Torino aveva battuto in casa la Sampdoria 4-2, con tripletta del centravanti argentino Nestor Combin. Dopo la partita Meroni e il compagno Fabrizio Poletti vanno a piedi verso casa, ma “Calimero” nella mansarda bohemien di piazza Vittorio non ci arriverà mai.
Mentre attraversava in Corso Re Umberto viene investito dalla 124 coupè guidata dal 19enne Attilio Romero. La tragedia si compie in pochi minuti. La corsa in ospedale, l’intervento chirurgico, la fine. Le urla disperate di Cristiana straziano il Pronto soccorso, i medici piangono ed inizia il mesto pellegrinaggio dei tifosi sconcertati.
La notizia arriva in Rai, Enzo Tortora grande uomo prima che giornalista, prima di darla in diretta alla “Domenica sportiva” chiede: “i familiari sono sati avvisati?”, altro giornalismo, altro rispetto per i valori umani. L’Italia pallonara resta scioccata, Torino si ferma e rende omaggio al giovane talento. Alla camera ardente ci sono tutti, Fabbri neo trainer della squadra che da CT azzurro gli voleva far tagliare i capelli e che lo escluse dalla partita chiave ai Mondiali con la Corea, quella della vergogna, c’è l’ex cuore granata Bearzot, lo juventino Boniperti, il mitico Cesare Pozzo.
Naturalmente i compagni di squadra attoniti. Capitan Ferrini, Lido Vieri, Gigi Simoni, Bruno Bolchi, Cesare Maldini, Giambattista Moschino, Aldo Agroppi, e quello più sconvolto e coinvolto emotivamente di tutti Combin. L’argentino con sangue da indio nelle vene si stacca dal gruppo per avvicinarsi alla salma dell’amico, gli carezza il volto e poi lo bacia in fronte. La foto che lo ritrae accanto al feretro farà il giro del mondo e quel bacio, successivamente, sarà interpretato da molti come un segnale.
Al funerale ci saranno quasi 30mila persone. Ancora una volta il cuore granata è spezzato da una tragedia dopo le lacrime di Superga. Per incredibile ironia della sorte, quel Romero, che di Meroni era grande tifoso con tanto di poster in camera, ben 33 anni dopo, nel 2000, sarebbe diventato presidente del Torino portandolo peraltro fino al fallimento. Ha ucciso il Toro due volte, il commento spietato di molti.
La settimana dopo le esequie, il Torino affronta la Juventus nel derby della Mole. Nel silenzio di entrambe le tifoserie, un elicottero inonda il campo di fiori, che vengono raccolti sulla fascia destra dove giocava Gigi. Nestor Combin, che nei giorni precedenti era stato a letto con la febbre e non si era allenato, insiste per giocare. Voleva esserci assolutamente in memoria dell’amico.
E la partita con lui si infiamma. Lottando come una furia, segna su punizione al terzo minuto, raddoppia al settimo, e firma al quindicesimo della ripresa una tripletta. Il quarto gol è opera di Alberto Carelli, il nuovo numero 7 succeduto a Meroni. Ecco che quel bacio nella camera ardente, oltre che una testimonianza toccante di affetto e amicizia, viene immediatamente inteso come una sorta di passaggio di consegne e di infusione di forza, fra i due inseparabili giocatori torinisti, una interpretazione che contribuisce ad alimentare il mito della “farfalla granata”.
Sono passati 50 anni dalla scomparsa di Gigi Meroni e la sua stella brilla intatta di luce propria, ma rinnova anche un dolore e una ferita mai rimarginati nella tifoseria del Toro ed anche in chi ama il calcio di una volta, quello fatto a misura d’uomo e non di sponsor. Con quel ragazzo morto tragicamente nel pieno della giovinezza, se ne è andato infatti non solo un giocatore di grande talento ma anche una persona speciale che con la sua simpatia, le sue allegre stravaganze e il suo anticonformismo, aveva colpito una generazione.
Come ha scritto giustamente Nando Della Chiesa, autore di un appassionato e passionale libro su di lui, “Gigi Meroni è stato tra i simboli di un’epoca, il simbolo di una certa bellissima idea di calcio. Per questo oggi il suo ricordo giganteggia. Per questo nessuno oggi immaginerebbe più di raccontare l’Italia degli anni sessanta, non solo calcistici, senza nominarlo”. Ecco perché la “farfalla granata” 50 anni dopo torna a volare come una volta, tra nostalgie struggenti ed emozioni indimenticabili. Quelle di chi ama il calcio.

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