Basta la reticenza imbarazzata del portavoce dell’esecutivo, Stephan Le Foll, per comprendere a che punto il governo francese si sia infilato in un cul-de-sac sulla riforma costituzionale. Ieri, in Consiglio dei Ministri, si è consumata l’ennesima commedia paradossale, in punta di diritto, questa volta. Il governo doveva esaminare la proposta di proroga di tre mesi dello Stato d’Emergenza. Il risultato era scontato e il prolungamento di questo limbo dello stato di diritto (che scade il 26 febbraio) dovrebbe ricevere l’avallo del Parlamento. La novità, si dice da più parti, è che la proroga, appunto prevista da giorni, sarebbe l’antipasto, di una perennizzazione dello stato d’eccezione fino, almeno così pare, all’approvazione della riforma costituzionale, pensata per inserire nella carta fondamentale strumenti più efficaci per garantire la sicurezza della repubblica. Il problema, come se non ce ne fossero abbastanza al crepuscolo di questo quinquennio di presidenza Hollande (probabilmente l’ultimo per i socialisti, almeno a medio termine) è che l’esecutivo non sa come portare a casa la riforma, soprattutto per quel che riguarda la decadenza della nazionalità.
Non si capisce come Hollande e il premier Valls si sia infilati in questo tunnel. Forse per rincorrere la destra che cavalcava l’emozione per gli attentati di novembre a Parigi.
Forse per imprimere una svolta in un paese che si è visto attaccato dall’interno, a riprova di un’”assimilazione” mai realizzata. Forse, ma qui torniamo più o meno sulla prima ipotesi, per inseguire il gradimento in un paese sotto choc. In ogni caso, quello che si sta consumando sulla privazione di nazionalità per i condannati per terrorismo, è uno spettacolo desolante. Sarebbe bello, e piacerebbe anche a chi scrive, spiegare in termini semplici e chiari cosa prevede il progetto di riforma costituzionale nella fattispecie, ma questo è impossibile poiché nessuno l’ha ancora capito. All’uscita del Consiglio dei Ministri, il portavoce del governo, Le Foll, non ha risposto ai giornalisti, rimandandoli al documento uscito dalla riunione. Solo che, in questo documento si afferma che la perdita della nazionalità sarà decisa da un giudice contro individui condannati per terrorismo, senza considerare “l’origine della loro appartenenza alla nazione francese”. In altri termini, chiunque, anche se in possesso della sola cittadinanza francese, potrà essere oggetto del provvedimento.
Sembrerebbe chiaro, ma non lo è. La Francia, infatti, ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite del 1961 che vieta esplicitamente la creazione di apolidi (individui senza cittadinanza) e non ha dato segnali circa un’eventuale volontà di sottrarsi ai principi da questa sanciti. Di conseguenza, la perdita della nazionalità non potrebbe che riguardare le persone con la doppia nazionalità, essendo le sole a riunire tutte le condizioni per essere private della nazionalità, pur nel rispetto della convenzione di New York.
Eppure, proprio il governo aveva esplicitamente rifiutato la possibilità di un chiaro riferimento ai cittadini con la doppia cittadinanza, nei nuovi articoli della costituzione riguardanti la perdita della nazionalità per motivi di terrorismo. Il problema non è soltanto quello della sostanza di una norma che appare inapplicabile ancor prima di essere licenziata, ma anche la forma, la scrittura materiale della legge.
Si potrebbe pensare che questa impasse si concluderà con un nulla di fatto che porti l’opinione pubblica a dimenticare la questione. Impossibile. Il governo, con un autolesionismo ormai colpevole, ha fatto e continua a fare della perdita della nazionalità il suo cavallo di battaglia, quasi che, senza quello che rappresenta l’unico provvedimento della riforma conosciuto dai francesi, l’ancor poco intellegibile revisione costituzionale non potesse andare in porto.
La situazione, però, è, se possibile, più complicata perché, se a pochi giorni dagli attentati di novembre la necessità di una riforma costituzionale incontrava il favore della stragrande maggioranza del paese, oggi quello slancio sta perdendo di vigore. E anche tra i parlamentari, i distinguo sono sempre più numerosi. Il rischio è che risulti veramente molto difficile per l’esecutivo raccogliere i 3/5 di voti del Parlamento, indispensabili per far passare la riforma della carta costituzionale. Gli equilibri stanno cambiando e, come dimostrano le dimissioni della ministra della giustizia Taubira, ultimo esponente della gauche del partito socialista nel governo, qualcosa a sinistra si muove.
Però, si diceva all’inizio, lo Stato d’Emergenza durerà fino a quando non sarà varata una riforma della quale, come risulta fino a oggi, non è dato sapere più di tanto. Nel cul-de-sac, quindi, non c’è soltanto il governo, ma un intero paese, ostaggio di uno stato d’eccezione, che (come denunciano le principali associazioni per i diritti civili) svilisce il potere giudiziario ed erode pericolosamente gli spazi delle libertà fondamentali, e che, questo è il rischio, potrebbe essere prorogato all’infinito.