Il fumo Onu sulla strage di Odessa e la guerra
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Il fumo Onu sulla strage di Odessa e la guerra

Strage di Odessa: l'ONU dei diritti umani guarda altrove. Le omissioni e falsità ONU, in Libia e Siria, hanno favorito le guerre. Possiamo raccontare già ora. [P.Cabras, E.Santi]

Il fumo Onu sulla strage di Odessa e la guerra
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7 Gennaio 2015 - 08.17


ATF

di
Enrico Santi e Pino Cabras
.

Di
fronte alla strage alla Camera del Lavoro di Odessa del 2 maggio 2014
la comunità internazionale – che (non) ha visto le cose attraverso
gli occhi chiusi dei media occidentali – si è girata da un’altra
parte. L’ONU, come vedremo, ha avuto gravi responsabilità. La
mancanza di un’inchiesta penale e giornalistica sul lato occidentale
ha favorito l’impunità, e su questa impunità prospera il clima cupo
che di nuovo investe Odessa, anche oggi, otto mesi dopo il pogrom.
Kiev, infatti, inaugura il 2015 inviando i carri armati della Guardia
Nazionale in questa città cruciale per gli equilibri ucraini (e
forse europei). Per essere un Paese che aspira all’Europa, l’Ucraina
di oggi sembra semmai una dittatura dell’America Latina degli anni
settanta, pronta a terrorizzare la popolazione con un uso
indiscriminato delle forze armate.

Abbiamo
raccontato la strage di maggio scorso con testi, immagini e
testimonianze in molti articoli e servizi televisivi.

I
materiali per ricostruire i fatti – e individuare colpevoli e
vittime – non mancano di certo. Eppure le remore contro la verità
hanno bloccato da subito alcune sedi decisive, che avrebbero potuto
agire altrimenti.

Uno
sfregio ai martiri di Odessa uccisi dentro il Palazzo dei sindacati.
Così si può definire la narrazione e ricostruzione storica del
pogrom, contenuta in una relazione (“Rapporto sulla situazione dei diritti umani in Ucraina”) del 15 giugno
2014, a cura dell’Alto Commissario per i diritti umani delle
Nazioni Unite, l’agenzia a quel tempo presieduta dalla sudafricana
Navi Pillay.

In
sostanza, secondo la relazione ci sarebbe stato un improvvisato
scontro armato fra due gruppi di diverso orientamento politico,
entrambi muniti di bottiglie molotov e armi da sparo: da una parte i
sostenitori di “Ucraina Unita” (fra i quali anche i tifosi delle
squadre di calcio Metallist e Chernomorets e gli estremisti di
Settore Destro), dall’altra i pro-federalisti, anti-Maidan, che poi
sarebbero morti dentro il Palazzo dei sindacati.

Prima
della partita di calcio era stato programmato un raduno dei
sostenitori di “Ucraina Unita” verso le ore 15:00. Ma ecco come
tutto avrebbe avuto inizio, e per colpa di chi. Alle ore 15:15 i
pro-federalisti di Odesskaya Drujina, armati di
caschi,
scudi, maschere, asce, bastoni di legno o metallo e armi da fuoco,
avrebbero iniziato a provocare i partecipanti di quell’adunanza. Ne
sarebbero scaturiti disordini durati alcune ore.

Verso
le ore 18:00–18.30 i pro-federalisti, informati che l’altro
gruppo (composto appunto dai sostenitori di “Ucraina unita”) si
sarebbe diretto in massa verso di loro (nella piazza dove avevano
creato un piccolo accampamento di tende), si sarebbero rifugiati
dentro la Casa dei sindacati. Verso le ore 19.30 ci sarebbe stato uno
scontro a distanza fra i due gruppi (i pro-federalisti all’interno
del Palazzo e gli antagonisti fuori nella piazza prospicente), con
reciproco lancio di molotov e spari di arma da fuoco.
Successivamente, dentro il Palazzo sarebbe scoppiato un incendio, di
cui non si conoscono le cause (!). In totale sarebbero morte 42
persone, delle quali 32 dentro l’edificio (come?) e 10 lanciandosi
dalle finestre.

Quindi,
riassumendo, a parte soltanto due annotazioni degne di rilevanza
(cioè gli interminabili 40 minuti impiegati dai vigili del fuoco per
percorrere gli appena 650 metri che separano la loro sede dalla Casa
dei sindacati e la considerazione sui poliziotti che, pur presenti
sul posto, non sarebbero intervenuti perché non avevano ricevuto
l’ordine di farlo…), la ricostruzione dei fatti è clamorosamente
omissiva in alcune parti e assolutamente scandalosa in altre.

Questo
nonostante che la relazione si stata

redatta
44 giorni dopo l’evento, quindi con un margine di tempo sufficiente
per acquisire e raccogliere notizie, prove, testimonianze, che
sarebbero state disponibili perfino da fonti “aperte” come le
immagini e inchieste diffuse dalle televisioni non allineate al
mainstream occidentale (che invece sono state ignorate).

Dunque,
secondo
l’agenzia dell’ONU, i pro-federalisti, uccisi dentro l’edificio:


si erano preparati alla guerriglia, portando e indossando strumenti
di difesa e offesa;


hanno dato il via agli scontri lanciando provocazioni verso
un’adunanza pubblica, cui partecipavano anche gli estremisti di
Pravy Sektor;


rifugiatisi dentro la Casa dei sindacati, hanno sparato e lanciato
molotov;


42 (solo 42?) sarebbero morti, ma per 32 di questi non ne viene
specificata la causa, facendo semplicemente cenno a un incendio che
sarebbe scoppiato dentro l’edificio.

Il
rapporto è un insulto alla verità. Un insulto al sacrificio e
martirio di inermi cittadini. Come è stato invece ampiamente
dimostrato, quasi tutti i cadaveri ritrovati sono stati uccisi uno ad
uno, con arma da fuoco e/o bruciati individualmente. Il che basta ad
aprire uno scenario estremamente diverso da quello accennato dai
compilatori dell’agenzia ONU. È la differenza che passa tra
incidente e pogrom, tra derby di ultras e strage.

Queste
omissioni non vanno trascurate, né lette come un circoscritto
episodio di cronaca nera politica: hanno conseguenze enormi, di lungo
periodo. Perciò è importante osservare come la questione venga
trattata in casa ONU.

È
già accaduto che la gestione di Navi Pillay dell’Alto Commissario
per i diritti umani sia stata criticata
in base a una valanga di prove per aver appoggiato – nelle pieghe
delle sue relazioni sui diritti umani – la versione NATO sugli eventi
di guerra più recenti
. In Libia la guerra è stata interamente
costruita dal punto di vista dei pretesti giuridici sulla
“responsabilità di proteggere la popolazione civile”
dall’ennesimo Hitler di turno. E Pillay era co-autrice della
narrazione che descriveva come necessario un «intervento
umanitario» contro Gheddafi. Il 25 febbraio 2011 offrì a Ginevra
una tribuna a molte organizzazioni non governative sui diritti umani
(tutte attratte nell’orbita del Dipartimento di Stato USA),
attraverso una riunione d’emergenza sulla Libia del Consiglio per i
diritti umani delle Nazioni Unite
. Fu uno degli elementi che
costruirono in fretta e furia il “clima” per la risoluzione 1973
del Consiglio di Sicurezza del successivo 17 marzo, che venne
immediatamente piegata e stravolta ai fini di un intervento militare
massiccio per un cambio di regime: cioè un’orribile guerra che ha
trasformato la Libia in uno Stato fallito, percorso da orde di
tagliagole. Sono seguiti – in questi anni – i comunicati della
Pillay sul decadimento dei diritti civili in Libia. Pure lacrime di
coccodrillo.

Per
la Siria Navi
Pillay è arrivata ad attribuire ad Assad – un altro politico
‘hitlerizzato’ dall’Occidente – la responsabilità di tutti i morti
del carnaio siriano
, intanto che venivano ignorate le orde di
mercenari e fanatici che poi, strage dopo strage, avrebbero
pavimentato la strada per l’ISIS. Nel 2012, un
massacro compiuto a Houla
, venne attribuito dagli jihadisti agli
uomini di Assad. L’Occidente volle crederci. Le TV russe dimostrarono
che invece la strage era opera degli jihadisti
. Pillay,
immancabilmente, fece rapporto sui capi d’accusa a carico delle
autorità siriane e chiese che il dossier contro di loro venisse
trasmesso alla Corte penale internazionale. Poi, in occasione
dell’orribile strage con armi chimiche di Ghouta, nella cintura di
Damasco, il 21 agosto 2013 – lo direste? – Navi Pillay pronunciò
poche parole pilatesche, che lasciavano campo libero alle false
accuse contro Assad. False narrazioni come questa hanno portato il
mondo sulla soglia di una catastrofe bellica nell’estate del 2013. E
l’ISIS è un’altra lacrima di coccodrillo, anzi, tutta un’immensa
valle di lacrime e sangue, che rivela il fallimento e la
strumentalità della gestione dei dossier sui diritti umani nelle
stanze dell’ONU. Stanze così permeabili all’agenda di Washington e
così travagliate per il campo dei paesi non alleati con gli USA.
Dall’8 settembre 2014, il nuovo Alto commissario ONU per i diritti
umani al posto della Pillay è il principe giordano Zeid Ra’ad Zeid
Al-Hussein, una carriera quasi interamente spesa tra università
anglosassoni e ruoli diplomatici ricoperti in America. Il suo
discorso d’esordio, naturalmente, è stato sul pericolo ISIS.


Il
dossier ucraino rivela gli stessi problemi e gli stessi silenzi che
hanno portato ai disastri libici, siriani e iracheni. Qualcuno dovrà
capire che è meglio sapere in tempo la verità. Al momento, c’è ben
poca verità nelle carte ONU. E l’assenza di verità è un’arma di guerra.


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