Basta una kefiah al collo per essere pestati da una squadraccia
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Basta una kefiah al collo per essere pestati da una squadraccia

Mezze verità e ipocrisia nel raccontare Palestina ed Israele. Le violenze squadriste di Roma, i silenzi dei media. Le leggi internazionali che non valgono. [Salvatore Lucente]

Foto Salvatore Lucente
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3 Luglio 2014 - 21.14


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di Salvatore Lucente

Aveva appena lasciato la sua bicicletta e si stava dirigendo verso Piazza Venezia, dal lato San Marco, per rispondere all’appello lanciato in solidarietà con il popolo palestinese. Non una manifestazione contrapposta ad un’altra, ma un sit-in pacifico per esprimere solidarietà e sdegno dopo che il ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi israeliani ha inasprito ancora di più la violenta punizione collettiva messa in atto da Israele in questi giorni. Il ragazzo, Paolo, 27 anni e una laurea in Scienze Politiche, camminava con indosso una Kefiah, simbolo della resistenza palestinese, e si è fermato a parlare con un’altra ragazza appena arrivata, in cerca del presidio. Ma non c’era alcun presidio, come hanno ricordato i Giovani Palestinesi in un comunicato: appena giunti in piazza, le forze dell’ordine hanno chiesto loro di spostarsi in un altro luogo, per evitare problemi. Come raccontato da diversi testimoni, c’erano infatti gruppi organizzati di filo-israeliani che presidiavano la zona, ragazzi palestrati e con caschi in mano.

Come accaduto ad altri prima, Paolo è stato avvicinato da un agente in borghese che lo ha avvertito della situazione tesa suggerendogli di andarsene. Mentre discutevano, un gruppo di 5-6 persone si è staccato da un gruppo più folto, lo ha raggiunto, ha iniziato a spintonarlo urlandogli contro “togliti quella sciarpa”, alludendo alla kefiah, per passare subito ai calci. Il ragazzo ha cercato di scappare, ma non c’è stato nulla da fare: nella direzione presa c’erano altre persone appostate che lo hanno incastrato e circondato. Riempiendolo di botte come mostrano alcune foto pubblicate anche da Repubblica Roma. A quel punto sono intervenute le forze dell’ordine, mentre un altro ragazzo cercava di proteggerlo, e gli agenti hanno rincorso gli aggressori che sono scappati dentro il ghetto. Il referto del Fatebenefratelli parla di numerose contusioni, anche alla testa, e una spalla lussata, con 25 giorni di prognosi. E’ successo ad un ragazzo solo così come poteva succedere a chiunque. Nessuna provocazione, né gruppi contrapposti. O forse esprimere civilmente il proprio dissenso e chiedere giustizia è un atto di provocazione? E non è la prima volta che si verificano episodi simili a Roma, con azioni che ricordano tanto quelle degli squadristi fascisti, come durante il corteo dello scorso 25 aprile.

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Un episodio di violenza che si spera circoscritto, ma le scritte infamanti trovate martedì mattina sul muro antistante l’ambasciata palestinese non fanno sperare per il meglio. Un comunicato a firma dell’Ambasciata Palestinese apparso oggi rende bene il clima di tensione che si respira anche nella capitale: alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi da un’auto in corsa ieri, intorno alle 20.30, in direzione dell’ambasciata. Le telecamere di vigilanza hanno ripreso l’accaduto e la polizia sta già indagando. Tutte notizie che, come sempre, sono state riportate sottovoce dai media nostrani, mescolate a ricostruzioni improbabili. Rispettare il dolore di una comunità, quella ebraica in Italia, che si sente colpita da quanto accaduto in questi giorni è sacrosanto. Omettere di raccontare quanto accade a Roma e in Palestina, è un’altra cosa.

Restando a Roma, tra la serata di lunedì e martedì, sono state ben sette le aggressioni registrate. Fatti gravissimi che non possono passare sotto silenzio nè restare impuniti. E sui quali informazione e politica dovrebbero esprimersi, così come hanno fatto nei giorni scorsi.

Pensando alla Palestina, le (poche) notizie che arrivano fanno rabbrividire. Dall’annuncio del ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi, lunedì, e a questa notte, è partita infatti una vera e propria rappresaglia ad opera dell’esercito israeliano, che ha portato all’uccisione di un ragazzo palestinese di 18 anni,Yousef Abu Zagha, a Jenin, numerosi feriti ed altri arresti. Oltre al bombardamento di Gaza, con almeno 34 attacchi missilistici registrati lunedì e almeno cinque la notte scorsa.

Una vendetta vera e propria che si aggiunge all’escalation di violenza a cui abbiamo assistito dalla scomparsa dei tre giovani fino al ritrovamento dei loro corpi, in un silenzio colpevole. Fatti che rientrano senza alcun dubbio nella definizione di “punizione collettiva”, altrimenti detta rappresaglia. Ovvero violenza come forma di ritorsione contro una popolazione inerme, che è contro il diritto internazionale, a cui anche Israele è chiamato a rispondere. Come chiamereste voi oltre 570 arresti, un numero incalcolato di feriti e 10 morti? Più che ricerca di colpevoli, somiglia ad una vera e propria rappresaglia. Fatto che risulta ancor più evidente dopo le dichiarazioni trapelate in questi giorni in cui vertici militari israeliani dicevano di essere a conoscenza della morte dei tre già da tempo. Cosa stavano cercando allora?

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Ma i nostri media non mediano, somigliano piuttosto ad uffici stampa che divulgano versioni a senso unico. E dopo aver taciuto delle morti manu militari di queste due settimane, tacciono anche dei 240 feriti registrati nella sola giornata di ieri nella sola Gerusalemme, in un crescendo di totale ipocrisia. E così ragazzi palestinesi uccisi diventano automaticamente, nella narrazione mediatica, terroristi o affiliati a gruppi armati, mentre i ragazzi israeliani scomparsi diventano automaticamente rapiti da Hamas. Laddove nessuno ha rivendicato il loro rapimento e successiva uccisione, in un paese in cui ogni minimo atto viene rivendicato spesso da una pluralità di soggetti anche contrapposti. E se l’uccisione dei tre ragazzi rimane un atto atroce e vile, il premier israeliano Netanyahu deve ancora mostrare al mondo le prove che dietro questo terribile omicidio ci sia proprio Hamas. Nessuno qui da noi lo ha mai messo in dubbio, mentre giornali di peso come Haaretz (israeliano) mettono in discussione da giorni parole e comportamento del governo israeliano. E altre testate raccontano di come sia stato loro impedito, dai vertici militari, di far luce su una vicenda dolorosa e oscura.

Ma tutto passa tranquillamente sui media italiani, impegnati a commentare i Mondiali di calcio o a dilungarsi nella commemorazione, giusta anche quella, della morte dei tre giovani. Giovani innocenti, che la comunità ebraica romana dice detentori di un’unica colpa, “essere ebrei”. Semmai, l’unica colpa che avevano quei ragazzi, e non era nemmeno la loro, era di vivere in una terra che non gli appartiene. Di abitare in insediamenti posti nel cuore del territorio palestinese, definiti illegali da ogni autorità internazionale. Nessuno sembra ricordare che dal ’67 in poi Israele continua impunemente ad occupare nuove terre in Palestina, costruire nuovi insediamenti e fornire sostegno economico a chi decide di trasferirvici. Un’espansione che va contro il diritto internazionale come ha ricordato pochi giorni fa l’ambasciatore dell’Unione europea in Israele, Lars Faaborg-Andersen. Commentando l’avvertimento formale lanciato ai propri cittadini da alcuni stati membri, tra cui l’Italia, a non intrattenere rapporti economici con e negli insediamenti israeliani. Proprio perchè illegali.

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Non si vuole qui sminuire l’altrocità dei fatti accaduti, ma ricordare che alla base del giornalismo c’è l’obiettività, così come l’evitare le “mezza verità”. Raccontare una verità parziale omettendo circostanze e fatti di cui si è evidentemente a conoscenza equivale a dire il falso. E questo dovrebbero conoscerlo le penne misericordiose della stampa italiana, che non hanno certo ricordato come dal 2000 ad oggi più di 1400 minorenni palestinesi sono stati uccisi dall’esercito o dai coloni israeliani. Una media di uno ogni tre giorni. O forse anche le morti nel nostro paese hanno diverso valore, a seconda della loro nazionalità? Perchè mercoledì mattina, è stato ritrovato a Gerusalemme Est il corpo di un ragazzo palestinese di 16 anni, Mohamad Abu Khdair. Rapito, ucciso e bruciato. Perchè palestinese. Una notizia che avrebbe dovuto fare da apertura in tutti i tg e grandi giornali nostrani, avere lo stesso risalto che giustamente è stato dato a quello del ritrovamento dei corpi dei tre ragazzi.

Ma siamo in Italia, e si parla di Palestina.

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