Obama, il populista riluttante

A fine anno si voterà per le elezioni di medio termine, che confermeranno, o muteranno a suo sfavore, gli attuali rapporti di forza con il Congresso. E lui...

Obama, il populista riluttante
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30 Gennaio 2014 - 13.09


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di Guido Moltedo

Il tempo è oggi la risorsa politica più preziosa per Barack Obama, e gliene rimane poco. A fine anno si voterà per le elezioni di medio termine, che confermeranno, o muteranno a suo sfavore, gli attuali rapporti di forza con il Congresso. Poco dopo si entrerà nel vivo di una corsa presidenziale che fatalmente distoglierà i riflettori dalla Casa Bianca per puntarli (molto probabilmente) su Hillary Clinton e sui suoi sfidanti.

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Il presidente in carica perderà obiettivamente peso politico e attrazione mediatica, a favore del suo successore, per quanto ancora nella condizione di aspirante tale. I prossimi nove mesi saranno dunque decisivi per la sorte di questa amministrazione, che dovrà giocarseli al meglio. Il 2014 sarà pertanto un anno di azione, “a year of action”.

Anche perché sia garantito al Partito democratico il mantenimento del controllo del senato, e gli sia conferita una sua consistente forza nell’ultimo biennio presidenziale. E perché la stessa Hillary possa condurre all’attacco la sua campagna elettorale, in sintonia con la Casa Bianca, e non cercando difensivamente impossibili distinguo.
Questi nessi sono evidenti nella scelta stessa del nuovo principale stratega del team obamiano, John Podesta, clintonista doc, che in qualche modo sembra già muoversi anche come trait d’union tra l’attuale presidente e la (auspicabile) futura candidata democratica ed erede. Ed è Podesta che ha spinto Obama nel suo vistoso “cambio di passo”, di metodo e di sostanza, reso evidente dal suo discorso sullo stato dell’Unione. Di metodo: la rivendicazione della pienezza del ruolo presidenziale, che si realizza anche nella firma di decreti (executive action), senza il consenso del Congresso e senza pertanto le logoranti e inutili trattative con la destra repubblicana. Di sostanza: un dichiarato spostamento a sinistra dell’asse politico, che pone al centro della politica e delle politiche la lotta alla diseguaglianza di reddito (income inequality) e alla disoccupazione cronica (long-term joblessness), il più persistente dei problemi economici, e l’azione a sostegno del miglioramento delle condizioni salariali più basse, con l’innalzamento della paga minima (la federal minimum wage, attualmente di 7.25 dollari l’ora) e meccanismi di indicizzazione dei salari. Per dare un senso di concretezza immediata, il presidente ha già firmato un executive order (che, appunto, aggirerà il Congresso) per l’aumento della paga oraria di certe categorie di dipendenti federali, come gli addetti alle pulizie e alla manutenzione degli edifici pubblici, portandola a un minimo di 10.10 dollari. A questi punti si aggiungono poi due temi cari ai liberal, quello del miglioramento e dell’espansione dell’istruzione nella prima infanzia e quello di più investimenti per le infrastrutture.

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Dopo il discorso sullo stato dell’Unione vedremo Obama “spiegare” la sua “populist economic agenda” direttamente agli elettori, con una serie di incontri e comizi in Maryland, Wisconsin, Tennessee e Pennsylvania. Anche l’idea di trascorrere il maggior tempo possibile tra la gente, lontano da Washington e lontano dal Congresso, è un punto fondamentale della strategia disegnata da Podesta. Anche per mettere in linea i democratici riluttanti, alcuni dei quali molto sospettosi nei confronti dello spostamento a sinistra della Casa Bianca in un anno elettorale. Se i repubblicani, ostaggi del Tea party e dei social conservative, sono il nemico visibile di Obama, c’è anche una fronda democratica insidiosa con la quale deve fare i conti. Al presidente rimproverano, questi democratici, una fissazione e un approccio “professorale” al tema dell’ineguaglianza, temendo in realtà che possa condurre a una politica di aumento delle tasse. Il senso comune di quest’area democratica è che le elezioni si vincono tenendo la barra al centro e non virando a sinistra.

I dati più recenti indicano che c’è una radicalizzazione nell’opinione pubblica americana, di fronte al perdurare della crisi, che perfino la trascende, nel senso che non ne coglie neppure i relativi miglioramenti. Secondo un’indagine condotta dall’autorevole PEW Research Center in partnership con il quotidiano USA Today, oggi solo il 44 per cento degli americani si considera parte della middle class, la cifra più bassa mai registrata, mentre il 40 per cento si considera appartenente alle classi medio bassa e bassa. Nel frattempo è significativamente diminuito il numero degli americani che si identificano come membri della classe alta. In effetti, i dati reali indicano un calo dell’otto per cento, tra il 2007 e il 2012, del reddito dell’americano medio. Oggi è ai livelli del 1997. Di converso, volano i redditi dei più ricchi. Secondo il Congressional Research Service, il dieci per cento al vertice della scala possiede quasi il settantacinque per cento del totale della ricchezza del paese; nel 1989 ne possedeva il 67 per cento.

Il sondaggista e stratega democratico, Stan Greenberg, sostiene che la maggioranza degli americani è a favore di un aumento delle tasse per i più ricchi. Peraltro, più in generale, l’economia, e chi ha la ricetta migliore per uscire dalla crisi, restano al centro dell’interesse degli elettori. L’ottantasei per cento degli americani sostiene che l’economia sarà decisiva nel determinare la loro scelta nel voto di novembre.

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Ecco perché la “narrativa” del riequilibrio necessario dei redditi deve caratterizzare l’azione della Casa Bianca e dei ministri, dicono gli strateghi del presidente, nella convinzione che un approccio “populist” sia l’unico possibile per ridare slancio a Obama e per rafforzare i candidati democratici nelle elezioni di mid-term.

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