di Frine Beba Favaloro
Si è svolta lunedì 28 ottobre presso il Dipartimento ISO dell’Università “Sapienza” di Roma la conferenza “InsideOut Nüshu: il segreto dell’interpretazione. Comunicazione, genere e cultura”, promossa da Itaci art&cult, all’interno della piattaforma di scambio InsideOut, e sostenuta dall’Istituto Confucio di Roma. L’incontro, che ha visto l’intervento di tre relatrici sinologhe, Anna Maria Paoluzzi, Ilaria Maria Sala e Adriana Iezzi, è nato dal desiderio di offrire per la prima volta in Italia una panoramica esaustiva sul fenomeno, lungo le direttrici linguistico-letteraria, mediatica, antropologica e storico-artistica.
Anna Maria Paoluzzi, linguista e docente di letteratura cinese, ha illustrato come la Nüshu, spesso definita “lingua”, sia in effetti un codice grafico di genere ad utilizzo privato, usato per trascrivere un dialetto presente nel distretto di Jiangyong, nel sud della provincia dello Hunan. I segni Nüshu, dall’aspetto affusolato e femmineo, erano condivisi da donne appartenenti ai ceti medio-alti legate da rapporti di “sorellanza giurata”, allargata (jiebai zimei) o ristretta, tra due coetanee (laotong). Originata probabilmente all’interno della minoranza Yao in un periodo di difficile datazione, la Nüshu fino agli anni Duemila si è mantenuta come forma vitale di comunicazione e di espressione scritta, condivisa sia da donne Yao che Han. Utilizzo di genere, localizzazione geografica e di classe sono gli unici elementi che possono essere elevati a fattori comuni per un fenomeno che nasce in un paese come la Cina dove i confini tra le etnie e culture locali sono sfumati da secoli di convivenze, e dove la trasmissione orale è resa sfuggente dalla schiacciante autorevolezza della trasmissione scritta. Se a questo si aggiunge che la corrispondenza tra significanti e significati non è univoca e che i primi andavano incontro a una personalizzazione nella realizzazione individuale, è evidente come sia impossibile parlare di un sistema di scrittura stabilizzato e universalmente riconosciuto all’interno di una comunità etnicamente definita.
Quanto invece è chiaramente rintracciabile è il percorso che ne ha portato alla definizione del segno: un’opera di rielaborazione grafica e risemantizzazione degli Hanzi, i caratteri regolari cinesi da sempre espressione del dominio culturale e del potere amministrativo e politico che lo Stato cinese confuciano a maggioranza Han ha esercitato per secoli sui propri territori.
Ilaria Maria Sala, giornalista e sinologa residente ad Hong Kong, descrivendo il processo di mediatizzazione a cui è stato sottoposta la Nüshu, ha quindi spiegato come il fenomeno sia stato portato massicciamente all’attenzione pubblica cinese ed internazionale alla fine degli anni Ottanta, quando si è verificato un vero e proprio boom mediatico, poi ridimensionato nei decenni successivi. Di tale rumore poco è arrivato alle orecchie delle scriventi che, nel complesso, non hanno tratto mai consistenti guadagni dal furore prima culturale poi turistico che ha accompagnato il fenomeno in Cina dove, come ha ricordato Paoluzzi, sembra che He Yanxin, ultima scrivente attiva ancora in vita dopo la morte nel 2004 di Yang Huanyi, sia tra le insegnanti di Nüshu peggio retribuite della zona.
Parimenti, quasi nulla della fascinazione ideologica, che soprattutto all’estero ha accompagnato la Nüshu, coinvolge le scriventi e le comunità a cui appartengono, come si evince dai commenti del figlio di Yang Huanyi, riportati da Sala, a cui egli domandava provocatoriamente “A che cosa potrebbe mai servire imparare la Nüshu, a trovare forse un lavoro migliore?”
Riguardo poi il mito tanto diffuso della presunta segretezza della Nüshu, risulta un’ipotesi piuttosto incredibile da immaginare nei minuscoli e sperduti villaggi cinesi dove tutti sanno tutto di tutti. Piuttosto, sembrerebbe plausibile che gli uomini la trattassero con disinteresse, come farebbe pensare il commento riportato del figlio di Yang Huanyi, che continua descrivendo la scrittura Nüshu come un’attività in cui le donne si dilettano, cantando, scrivendo o ricamando e, soprattutto, restandosene buone buone a casa, senza andare in giro a combinare chissà che cosa.
Al di là della questione della segretezza, la Nüshu prevedeva comunque un utilizzo rituale (come nel caso delle “lettere del terzo giorno”, inviate alla sposa nel terzo giorno dopo il matrimonio, dei ventagli o delle trascrizioni di ballate popolari rielaborate e cantate dalle donne) che si affiancava ad un uso più specificatamente funzionale di scrittura pubblica (attraverso ricami sui vestiti), privata e diaristica.
Come ultimo intervento, Adriana Iezzi, dottoranda in storia dell’arte orientale, esperta di arte contemporanea e calligrafia cinese, ha descritto come la Nüshu, da quando è stata portata all’attenzione del pubblico, abbia costituito non soltanto una forma di vitalità culturale locale, ma anche una fonte di ispirazione per il mondo delle arti.
Diversi sono stati gli artisti, o meglio le artiste cinesi che hanno attinto alla tradizione Nüshu per inaugurare una cultura artistica di genere pressoché sconosciuta alla tradizione cinese (come la calligrafa Cai Mengxia e l’artista visuale Tao Aimin). Ma anche fuori dalla Cina, alcune artiste di origine cinese si sono rifatte alla Nüshu per proporre un loro personale dialogo tra estetica cinese e occidente, intraprendendo contestualmente un viaggio di ritorno alle proprie origini culturali (ad esempio l’artista visuale Victoria H. Chang) o interrogandosi, in una dimensione globale, sul tema della comunicazione e dell’interrelazione femminile (caro all’artista multimediale Gein Wong e alla coreografa Helen Lai, quest’ultima in effetti residente ad Hong Kong). Un approccio, infine, condiviso anche da uno dei rari artisti uomini che si sono ispirati alla Nüshu, il famoso musicista Tan Dun, autore di una “sinfonia visuale”, e da alcune artiste non cinesi come Petha Coyne, Maria Spissu Nilson e Rosanna Marcodoppido.
Secondo modalità più o meno celebrative, più o meno strumentali, accanto al mondo degli studi di genere, anche quello delle arti ha dunque mostrato interesse per un fenomeno che, anche dopo analisi e dissezione, mantiene un suo alone di fascino e di potenza evocativa, per la naturale tensione e il bisogno umano di comunicazione ed espressione che esemplifica.
Una forza simbolica riconosciuta nel paese anche all’interno di un fenomeno storico, eterodosso e di rottura, quale fu il Regno della Grande Pace (1851-1864), ispirato ad una forma cinese di cristianesimo, a principi rivoluzionari e ad un egualitarismo autoritario, sotto il quale venne coniata una moneta che riportava, in caratteri Nüshu, la dicitura “Sotto il cielo le donne costituiscono un’unica grande sorellanza”.
Conferenza a cura di Valeria Noli e di Frine Beba Favaloro, realizzata da Itaci art&cult, con il sostegno dell’Istituto Confucio – Dipartimento Istituto Italiano di Studi Orientali ISO, “Sapienza” Università di Roma, e il patrocinio dell’Accademia di Belle Arti di Roma il 28 ottobre 2013
[url”Itaci art&cult”]http://itaciartcult.wix.com/italychina[/url]