Non occorre essere nemici della Cina per salvare il Tibet
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Non occorre essere nemici della Cina per salvare il Tibet

Parlano il presidente del Parlamento tibetano in esilio in India, e il rappresentante tibetano del governo in Europa. [Rosanna De Giovanni]

Non occorre essere nemici della Cina per salvare il Tibet
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19 Luglio 2013 - 17.35


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di Rosanna De Giovanni

Ho incontrato, in occasione di un loro recente passaggio in Italia, il presidente del Parlamento tibetano in esilio in India, Mr Pempa Tsering ed il rappresentante del governo tibetano in Europa Mr Kelsang Gyaltsen. Ecco la doppia intervista.

Come potete descriverci la situazione dei tibetani in Tibet oggi e come giudicate le notizie contrastanti che sono arrivate in occidente circa un possibile allentamento delle restrizioni che riguardano soprattutto il Dalai Lama

PEMPA TSERING: Le notizie che ci arrivano dal Tibet ci dicono che la repressione praticata dalle autorità cinesi è ancora sempre molto grave, pesante, è innegabile che il problema dei tibetani che si sono autoimmolati ( 120 dal 2009 ad oggi ndr) sia questo. Abbiamo anche saputo che in alcune zone, ad esempio in Amdo, dove si sono verificati la gran parte dei casi di autoimmolazioni, o nei dintorni di Lhasa, le autorità locali vanno dicendo che le persone possono esporre foto del Dalai Lama, o che nei monasteri si gode di maggiori libertà. Sono le notizie che abbiamo ricevuto ma che non hanno trovato conferme in documenti ufficiali, ora noi abbiamo bisogno di capire se l’atteggiamento delle autorità locali nei confronti delle minoranze etniche stia cambiando davvero, se sia un modo per trovare soluzioni alternative ad alcune aspirazioni dei tibetani in termini di libertà religiosa. Noi siamo cauti, nutriamo dei dubbi, potrebbe essere che Pechino cerchi di mettere in atto la stessa tattica che adottò a suo tempo Mao con gli intellettuali: un modo per identificare gli oppositori per poi arrestarli, oppure un sistema per capire quanti tibetani sono desiderosi di esporre pubblicamente foto del DL così da poter sapere con certezza chi sono i suoi seguaci. Allo stesso modo i tibetani possono avere paura che sia una trappola perciò non si espongono, in questo caso il governo cinese potrebbe dire oh non sono poi così tanti i seguaci, del Dalai Lama! Perciò potrebbero esserci diverse interpretazioni, ma in ogni caso dalla nostra prospettiva non c’è nessuna conferma di un cambiamento effettivo, se ci fosse riguarderebbe tutte le aree del Tibet non solo alcune. Tutto ciò che il governo cinese fa, lo fa sempre a livello sperimentale, prima in una zona piccola e poi se pensa che funzioni lo replica in altre parti.

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KELSANG GYALTZEN: Io ho ricevuto notizie che dicono che negli ultimi mesi, nella regione del TAR circa 20mila ufficiali, cioè membri del partito comunista cinese, sono stati mandati in ogni villaggio in ogni monastero a intervistare ogni singola persona, persino i bambini, facendo domande del tipo “cosa pensate del partito comunista, come giudicate la sua politica, l’attuale situazione in Tibet, cosa pensate del Dalai Lama”. È evidente che cercano di ottenere più informazioni possibili per catalogare persone e famiglie in gruppi, quelli che si schierano con il governo, quelli che non protestano o manifestano apertamente ma in segreto sono leali al Dalai Lama e infine quelli che manifestamente esprimono la loro sfiducia o la loro protesta. Stanno facendo queste liste in ogni villaggio del Tar.

PEMPA TSERING: Posso aggiungere inoltre che gli annunci di un ammorbidimento della repressione religiosa sono giunti proprio prima della visita ufficiale dell’ambasciatore americano a Lhasa con tanto di giornalisti al seguito. Questo per poter dire, e far credere alla comunità internazionale, che stanno facendo qualcosa. In realtà ciò dimostra che non cercano per nulla una soluzione definitiva al problema tibetano, solo e sempre escamotage temporanei.
Nei confronti del Dalai Lama la posizione del governo cinese è sempre la stessa, preoccupato della sopravvivenza del partito comunista e della sua sovranità ad ogni evento e in ogni occasione lo accusa sempre di essere un pericoloso separatista.

Che cosa potrebbero fare i governi e i popoli occidentali per sostenere di più e meglio la questione del Tibet?:

PEMPA TSERING: Due considerazioni: la prima è che non c’è altra via per risolvere la questione che dialogare con la Cina, gli Usa non faranno una guerra per il Tibet come hanno fatto in Iraq e se non lo fanno loro nessun altro governo lo farà, quindi nonviolenza e negoziazione. La seconda considerazione è che nessun paese si metterà contro la Cina per difendere i nostri diritti, per cui dobbiamo essere realisti. Ma allo stesso tempo noi diciamo al mondo libero voi godete della libertà e vedete rispettati i vostri diritti, siete fortunati, ma il fatto che ci siano molti altri paesi sotto regimi che libertà e diritti invece soffocano potrebbe avere in un futuro non molto lontano degli effetti molto negativi anche per voi, la tentazione di svolte autoritarie può essere contagiosa.
Noi sempre chiediamo con urgenza ai governi di sostenere il Tibet ma senza che diventino necessariamente antagonisti dei cinesi perché non aiuta. La Cina è una grande potenza , è un fatto, ma deve ancora diventare una potenza responsabile, perciò gli occidentali dovrebbero far pressioni usando argomenti come la salvaguardia dell’ambiente o della cultura tibetana e delle altre minoranze. Se il governo cinese proteggerà la cultura tibetana arricchirà anche quella cinese, soprattutto ne trarrebbero beneficio quei 300-400 milioni di buddisti cinesi che incontrerebbero così il vero insegnamento del Buddha.
Quando diciamo che non c’è più tempo pensiamo ai cinesi Han che sempre più numerosi arrivano in Tibet, non siamo contro una società multiculturale, ma quello che succede è che la maggioranza di una comunità sta distruggendo l’identità di un’altra .Questo è quello che ci preoccupa. Vi chiediamo di avere pazienza e di continuare a sostenerci, il vostro appoggio ci dà forza.

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KELSANG GYALTSEN: Nel XXI secolo non è accettabile il genocidio che si sta consumando in Tibet, se gli europei ricordano i totalitarismi del XX secolo, ricorderanno come il sostegno da parte degli altri popoli fu molto importante. Restare in silenzio di fronte a ciò che succede oggi in Cina equivale ad appoggiare il governo cinese. Prese di posizione o organizzazione di eventi non sono di certo risolutivi per noi, ma significano molto per i tibetani in Tibet, è come dir loro non siete abbandonati noi vi sosteniamo.

Che cosa rispondete a quanti, soprattutto ai giovani tibetani nati nella Diaspora, vivono con frustrazione il fallimento della cosiddetta via di mezzo, la richiesta di negoziare per una reale e genuina autonomia abbandonando completamente l’approccio indipendentista?

PEMPA TSERING: È ovvio che se potessimo ottenere l’indipendenza saremmo tutti contenti, ma bisogna conoscere a fondo la questione e la storia del Tibet e non seguire le proprie emozioni. Se potessimo emotivamente risolvere il problema non avrei riserve ad unirmi a loro. Ma chiedendo l’indipendenza quanto territorio pensano di ottenere, e parliamo del Tibet storico, delle 3 province Amdo, Kham, Utsang. E ancora, come pensano di ottenerla? Facendo guerra alla Cina o attraverso negoziati? Nel primo caso Pechino non avrebbe problemi ad annientarci. Nel secondo non ci ascolterebbe neanche, conclusione il Tibet sarebbe isolato. Da una parte c’è un approccio pragmatico e dall’altra un obiettivo che non si può raggiungere. Allora che si fa? Dobbiamo essere realisti, la via di mezzo è l’unica praticabile per una soluzione di lunga durata.

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Però anche i tentativi di dialogo per l’autonomia, compiuti per svariate volte in passato, non hanno portato a nulla, neanche ad un inizio di negoziato

KELSANG GYALTZEN: È vero, ma gli incontri tra inviati non hanno avuto effetti per colpa della non volontà da parte cinese di dialogare e negoziare sul serio. L’anno scorso, il Dalai Lama aveva chiesto a me e al mio collega Lody Gyari di riprendere i contatti con Pechino, ma abbiamo rinunciato perché la situazione all’interno del Tibet è diventata sempre più difficile, il governo cinese non ha dato segni di volere un onesto e franco dialogo. In queste condizioni non è stato possibile assumerci questa responsabilità. La posizione del governo tibetano in esilio è chiara ed è per la richiesta di una vera autonomia per il Tibet, non per l’indipendenza, non appena il governo cinese manifestasse davvero il desiderio di dialogare onestamente noi saremmo pronti a ripartire.

C’è qualche motivo oggi per sperare?

KELSANG GYALTSEN: Posso dire quali sono i miei quattro motivi per un certo ottimismo. Primo: il pragmatismo della leadership tibetana che continua da diversi anni a invocare l’autonomia con la nonviolenza. Secondo: lo spirito dei tibetani dentro e fuori dal Tibet non è mai stato così forte come adesso. Terzo: alcuni sviluppi all’interno della Cina. C’è all’interno del partito comunista un dibattito per cambiare strategia che può ancora crescere se sostenuto dalla comunità internazionale. Quarto: in recenti dichiarazioni, un quadro del partito comunista ha affermato che se si cambiasse politica nei confronti del Dalai Lama, sicuramente si ridurrebbe la pressione internazionale nei confronti della Cina.

Pochi giorni dopo questa intervista ci è giunta notizia che la polizia cinese, durante i festeggiamenti per il compleanno del Dalai Lama, ha aperto il fuoco su un gruppo di tibetani, ferendone alcuni in modo grave. Diventa difficile credere che siano in atto dei cambiamenti nella politica cinese, e le purtroppo rare prese di posizione occidentali nel condannare l’accaduto non sembrano lasciare molto spazio all’ottimismo.

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