Najia Siddiqi, responsabile del Dipartimento Affari Femminili della provincia di Laghman, (Afghanistan nord-orientale), è stata assassinata da “sconosciuti” a Mehtarlam la mattina del 10 dicembre, mentre si recava al lavoro. Gli aggressori le hanno sparato da un’auto in corsa. Siddiqi ricopriva la carica lasciata vacante a luglio scorso da Hanifah Safai, rimasta uccisa in un attentato dinamitardo. Nonostante fossero in pericolo di vita, sia Siddiqui che Safai erano senza scorta.
Solo pochi giorni fa nella provincia di Kapisa, confinante con quella di Laghman, è stata ammazzata la 22enne Hanisa, “rea” di lavorare a una campagna per la vaccinazione anti-polio.
Un mese fa nella zona di Kunduz è stata la volta della giovane decapitata perché il padre aveva rifiutato di darla in sposa al ceffo di turno. L’elenco potrebbe essere aggiornato ogni giorno dell’anno.
Una donna che non sparisce in un burqa, o non tiene un profilo raso-terra in Afghanistan è a rischio di vita in ogni momento. E dire che sono passati ormai undici anni dalla “vittoria” dei “nostri” su quei Talebani che mortificavano in primis le donne.
Certo, le donne oggi votano in Afghanistan e, potendo, vanno pure a scuola (eccetto nelle zone in cui gli stessi talebani o i warlords che agiscono indisturbati lo impediscono).
L’omicidio di Najia Siddiqui ha preceduto di qualche ora la presentazione di un rapporto realizzato dalla Missione delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) e Ohchr (Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani), dal titolo: “L’implementazione dell’eliminazione della legge sulla violenza contro le donne in Afghanistan ha ancora molta strada da fare”. Piò o meno come scalare l’Everest. A piedi scalzi.
Per rendersene conto basta visitare le carceri femminili afghane e trovarci dentro ragazzine e donne arrestate perché vittime di brutali forme di violenza in casa o nella società per farsene un’idea (chi scrive ne ha visitate a più riprese due, un anno dopo l’introduzione della legge). Nell’inchiesta delle Nazioni Unite che si concentra, appunto, sull’inefficacia della legge contro la violenza sulle donne introdotta nel 2009 (Elimination of Violence Against Women law), è citato ad esempio il caso di una ragazzina 15enne di Herat picchiata da marito e suocero, che, preso il coraggio a due mani ha provato a denunciare per sentirsi dire di tornare a casa o di essere messa in galera. Altro esempio è quello della donna strangolata dal marito per aver partorito una figlia femmina, invece che un maschio.
La legge introdotta nel 2009 interviene contro i matrimoni di bambine e la compra-vendita delle stesse, le aggressioni e altre forme di violenza contro le donne.
Il rapporto UN sostiene che la violenza contro le donne non è denunciata a causa di resistenze culturali “norme sociali e taboo”. Allo stesso tempo il documento evidenzia alcuni progressi nella “registrazione e applicazione della legge”.
Una su mille ce la fa, insomma. E’ il caso della 18enne Lal Bibi, che a rischio della vita ha di recente denunciato i quattro poliziotti che l’avevano violentata, condannati a 16 anni di carcere.
A conferma di quello che dice il rapporto UN, aggiungiamo che in due rifugi a Kabul e uno a Herat vivono nascoste ragazzine braccate dalle famiglie o da uomini che le minacciano di morte. Donne che invece di vivere esistono per aver rifiutato un matrimonio, o per non addossarsi la responsabilità di un omicidio commesso da un fratello. In altre zone del paese non ci sono shelter. In questo paese esiste il fenomeno dell’auto-immolazione femminile: donne si cospargono di gas (quello da cucina venduto in piccole bombole) e si danno fuoco.
Questo è l’Afghanistan retto da Hamid Karzai, in cui le donne votano e in cui esiste da tre anni una legge che le protegge dalla violenza. Non c’è da sorprendersi se la prospettiva di una prossima riconciliazione con la formazione di un esecutivo in cui siedono pure i talebani disturba le afghane che hanno il coraggio di battersi contro una condizione sub-umana. Se per allora ne resteranno di vive.
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