Martine Aubry? «Il suo profilo corrisponde a questo momento politico, caratterizzato dall’ascesa di Mélenchon», dice un membro della segreteria socialista a Libération. In parole povere: coprirebbe Hollande a sinistra. Inoltre, il sindaco di Lilla e première secrétaire del Ps è apprezzata dai francesi: la metà degli elettori intervistati da un sondaggio Bva la vedrebbe bene all’hôtel Matignon, la residenza del primo ministro. E sarebbe la seconda donna nella storia tricolore a occupare quella poltrona, dopo Édith Cresson, premier ministre de la France con Mitterrand agli inizi degli anni Novanta.
Controindicazioni? L’intesa di Martine con François non sarebbe idilliaca. Ma qui le ragioni della politica possono avere la meglio sul conflitto di caratteri o sul cumulo delle reciproche carinerie che i due si sono scambiati nelle primarie socialiste, la più gentile delle quali è l’anatema lanciato da Aubry a Hollande, uomo di una sinistra «senza spina dorsale», un’etichetta che François si porterà per sempre addosso.
Ora che l’Eliseo non è più un miraggio per i socialisti, la designazione del capo del governo è il tema cruciale del finale della campagna elettorale di Hollande e ancor più lo sarà nell’intervallo tra il primo e il secondo turno. È una scelta importante, la sua, che serve a rafforzare immagine e linea politica dell’aspirante presidente. È un po’ come l’indicazione del suo vice da parte del candidato alla presidenza degli Stati Uniti, anche se le rispettive funzioni e peso istituzionale -del numero due americano e del primo ministro francese- sono assai diverse. Di fatto, nel sistema d’oltralpe, che non prevede la figura del vice-presidente, l’effettivo numero due è il primo ministro. Peraltro, con l’americanizzazione galoppante della campagne presidenziali francesi, si può parlare anche a Parigi di ticket presidenziale. A livello mediatico, la dinamica è quasi identica a quella statunitense.
Stesso clima d’attesa e di enigma sui tempi e sui criteri della designazione del primo ministro, sapientemente alimentato dagli strateghi elettorali. Medesima logica politica: la scelta può cadere su una donna. O su un giovane. In alternativa ad Aubry si parla infatti di Manuel Valls, cinquant’anni ad agosto, eppure considerato una bandiera della jeunesse. Oppure può valere l’esperienza di un politico di lungo corso: nella lista dei possibili primi ministri di un governo socialista figurano Laurent Fabius, Michel Sapin, Pierre Moscovici e perfino Lionel Jospin. E perché non un fedelissimo? Per esempio, Jean-Marc Ayrault, presidente del gruppo socialista all’Assemblée nationale. Ma una figura del genere non amplierebbe certo lo spettro politico, come farebbe invece un leader autorevole ma distante dal candidato presidente.
Con un alleato fidato alla guida del governo, il successore di Sarkozy potrebbe però contare su un esecutivo del tutto allineato e obbediente (la recente storia presidenziale francese è costellata di frizioni e dissidi tra Eliseo e Matignon). Lui, Hollande, non ha offerto il minimo indizio sui suoi orientamenti, ma ha voluto circoscrivere l’area della sua scelta, un fatto comunque politicamente importante, perché serve sia a rafforzare la linea politica di questo ultimo tratto dello scontro elettorale sia a distanziarsi, anche su questo terreno, da Sarkozy. E, non ultimo, ad allontanare voci e supposizioni su un patto con l’altro François, il centrista Bayrou. «Io sono socialista – ha scandito il deputato di Corrèze – sono di sinistra e governerò con la sinistra, non ci sarà un’apertura. Il mio primo ministro sarà socialista, io dico tutto, io non nascondo niente».
Evidente, nel termine “apertura” (ouverture), la polemica verso Sarkozy, che imbarcò un folto gruppo di esponenti socialisti, nel tentativo di desertificare l’opposizione, allo sbando dopo la cocente sconfitta di Jospin. Una politica che il presidente candidato rivendica e rilancia, non senza abilità, nell’evidente tentativo di confinare nel suo spazio “naturale” l’avversario, rendendolo incapace di sfondare oltre il suo recinto, al centro e a destra. Lui, Sarkozy, nella scelta dice di tener conto dell’umore del paese, così come vien fuori dalle urne. «Bisogna vedere ciò che dicono i francesi perché la scelta del primo ministro non può essere totalmente indifferente a ciò che dicono i cittadini, a ciò che hanno voluto dire, verso dove va il sentimento maggioritario, quel che si aspettano. Il presidente della repubblica deve tenerne conto».
Così ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano di una possibile offerta di incarico a Bayrou, per averlo alleato nel secondo turno. Parole che non lasciano affatto cadere l’ipotesi di un patto con il candidato del MoDem (che nega di essere interessato a fare accordi del genere con Sarkozy o con Hollande), ma che soprattutto cercano di accreditare l’immagine del presidente di tutti francesi, in contrasto con quella dell’avversario, espressione ferrea di una sola parte del paese. Sono collocazioni tattiche funzionali al conseguimento del massimo dei profitti elettorali nel primo turno.
Ma, come insegnano tutte le precedenti presidenziali che hanno visto due turni, dopo il primo e nell’intervallo verso il secondo, anche le più granitiche posizioni possono diventare duttili nel gioco delle alleanze necessarie per la vittoria definitiva.