Pechino e il GranPartito, potere e regole segrete
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Pechino e il GranPartito, potere e regole segrete

"Guerra fredda" per la transizione. Il XVIII Congresso del Partito comunista cambierà la squadra dirigente del gigante d'Asia [Chen Xinxin]

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18 Marzo 2012 - 19.04


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di Chen Xinxin

Il conto alla rovescia è cominciato, nel silenzio generale, lo scorso autunno. A ottobre con il XVIII Congresso del Partito comunista cambierà la squadra dirigente del gigante d’Asia per arrivare poi all’incoronazione dei nuovi presidente e premier nel marzo 2013. La lotta interna al Pcc in vista della transizione è in atto da tempo e le liti sono senza quartiere. L’epurazione di Bo Xilai, anticipata tra le righe dal primo ministro Wen Jiabao nella conferenza stampa in cui ha ribadito l’esigenza di riforme per la Cina, è solo un atto della faida tra le diverse anime del Pcc.

Sono anime impossibili da inquadrare in categorie perché le sfumature sono infinite. Ci sono i tuanpai, che provengono dalla base del partito, dalla Lega della Gioventù comunista e che hanno nel presidente Hu Jintao il massimo esponente. E i taizi, i “principi rossi” legati a papaveri del Pcc di generazioni precedenti, come Bo e Xi Jinping, erede designato di Hu e figlio del rivoluzionario Xi Zhongxun. Ci sono fronti che si danno battaglia su diversi modelli di sviluppo. E ci sono i “riformisti”, gli angeli custodi della stabilità, i conservatori. In ballo c’è l’impostazione ideologica del partito.

Prima dell’ambizioso principino Bo, nella metropoli di Chongqing, tassello importante nei giochi di potere, regnava Wang Yang. Il “riformista”, che arriva dalla Lega della Gioventù ed è un sostenitore della crescita economica a tutti i costi, è ora a capo del Pcc nel Guangdong. E lavora per varcare la soglia del Comitato permanente del Politburo del Pcc, il cuore del potere politico. Al pari del successore di Bo, Zhang Dejiang. Li chiamano i “nove imperatori”. A ottobre cambieranno tutti, ad eccezione di Xi e Li Keqiang, tuanpai, prossimo successore di Wen e delfino di Hu. Anche Bo sognava la scalata ai vertici del partito.

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Bo -con un passato di militanza in una fazione oltranzista delle Guardie Rosse e di lavori forzati, principino perché figlio di Bo Yibo, uno degli “otto immortali della Rivoluzione”, vittima delle purghe durante la Rivoluzione Culturale e poi riabilitato- è il padre del “modello Chongqing”. E’ l’ideologia alternativa a quella dei riformisti: costruzione di un sistema di welfare a tutela dei cittadini condito da richiami all’epoca maoista (poco graditi ad altri taizi, vittime della Rivoluzione Culturale), lotta alle mafie e alle diseguaglianze sociali e forte sostegno alle imprese statali. Con le sue politiche, il populista Bo, ex ministro del Commercio, era riuscito a conquistare consensi, ma si era fatto anche non pochi nemici.

Non a caso, parlando di «riforme», Wen aveva detto che il Pcc deve «imparare la lezione» dal caso di Chongqing, considerato di ostacolo alle “riforme” stesse. Dietro all’epurazione di Bo, accusato pure di una spietata repressione contro Falun Gong, c’è anche la vicenda del suo ormai ex alleato Wang Lijun, il super poliziotto licenziato e sotto inchiesta dopo essersi rifugiato nel consolato Usa di Chengdu a inizio febbraio. Cosa avrà detto Wang Lijun agli americani?

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Nella “guerra fredda” per la transizione il vice premier Zhang Dejiang è stato nominato nuovo segretario del Pcc a Chongqing. Wang Yang prima di Bo, Zhang dopo Bo. Zhang, con un passato di studi in economia in Corea del Nord, è noto per aver gestito l’emergenza Sars e la “diffusione” di notizie sull’epidemia da segretario del Pcc di Guangdong, dove ora regna Wang Yang, che promuove “riforme” e “trasparenza” in nome della crescita economica e lascia spazio all’economia di mercato. Zhang come Bo deve la carriera a Jiang Zemin, leader della “cricca di Shanghai” formalmente soppiantata dai tuanpai, ma ancora con forte voce in capitolo nelle stanze del potere. E come il principino silurato, sembra sostenere politiche autoritarie, ma al suo contrario non si può dire che si sia distinto per un impegno nella lotta alla corruzione.

«Nulla cambierà davvero in Cina nel breve periodo. Le politiche fondamentali resteranno le stesse», mi diceva a inizio anno un amico cinese vicino ai circoli del potere di Pechino. Se è vero che nulla di simile all’epurazione di Bo avveniva da anni in Cina, sin dall’epoca di Zhao Ziyang, è altrettanto vero che il “modello Chongqing” stonava nell’insieme delle politiche del gigante d’Asia, non per la lotta alle diseguaglianze sociali e alle mafie, ma per gli ostacoli alle imprese private, che hanno trainato la crescita e creato “nuovi ricchi” e “nuovi potenti”.

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La fine di Bo è un chiaro segnale per i conservatori. A inizio marzo Xi aveva fatto appello all’«unità» del Pcc parlando di «purezza ideologica» e lanciando un monito a chi «cerca di accattivarsi le folle» in un discorso ai quadri della scuola del partito, che però è stato pubblicato solo dopo l’epurazione di Bo. Zhao, silurato nel 1989 per essersi rifiutato di imporre la legge marziale e reprimere con la forza militare il movimento di piazza Tian’anmen, è morto nel 2005, dopo una vita agli arresti domiciliari.

Resta l’incognita su quello che ne sarà del principino, protagonista del revival della “cultura rossa”, rimosso dall’incarico a Chongqing, ma ancora membro dell’Ufficio politico del Pcc.

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