L’Islanda? Sappiamo a malapena dove collocarla sul mappamondo. E’ un paese piccolo piccolo. Ha 326 mila abitanti, quanti ce ne stanno a Bari. Non troverete un articolo in cui si parli di Islanda, nei giornali italiani. Non ne sentirete mai parlare nei telegiornali. Eppure anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano. In questi giorni l’Islanda sta processando il suo ex Primo ministro. L’accusa? Geir Haarde deve rispondere di disastro nazionale, per la bancarotta del Paese nel 2008. E’ la prima volta che accade, nel mondo, dopo la crisi finanziaria globale. Esempio da esorcizzare. Forse è per questo che i grandi media non ne parlano.
Era il 6 ottobre del 2008 quando Geir Haarde convocò una conferenza stampa d’emergenza per dichiarare il collasso finanziario dell’isola. Concluse così: “Dio benedica l’Islanda!”. Seguirono mesi di incessanti manifestazioni popolari, che lo costrinsero alle dimissioni. Gli successe la socialdemocratica Johanna Sigurdardottir.
“Ecco la storia. Alla fine del 2008 la crisi finanziaria si abbatte come un ciclone sugli islandesi, che nell’ottobre decidono di nazionalizzare la banca più importante del paese, Landsbanki.Seguono a ruota la Kaupthing e la Glitnir. I debiti degli istituti falliti sono in gran parte con la City di Londra e con l’Olanda. La moneta nazionale, la corona, è carta straccia e la Borsa arriva a un ribasso del 76%. Il governo conservatore di Geir H. Haarden chiede l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che approva un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, integrato da altri 2 miliardi e mezzo di alcuni Paesi nordici. Le proteste popolari si susseguono in un crescendo che porta alle dimissioni del primo ministro nel gennaio 2009 e a elezioni anticipate nell’aprile successivo. Dalle urne esce vincitrice una coalizione di sinistra, che non riesce a frenare la caduta dell’economia. L’anno si chiude con una diminuzione del 7% del Pil.
Il nuovo esecutivo propone la restituzione dei debiti a Regno Unito e Olanda mediante il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro, somma che pagheranno tutte le famiglie islandesi mensilmente per i prossimi 15 anni al 5,5% di interesse. Nel gennaio 2010 il capo dello Stato, Ólafur Ragnar Grímsson, si rifiuta di ratificarla e dà soddisfazione al popolo che reclama un referendum sulla questione. Il risultato della consultazione che si tiene a marzo è schiacciante: il 93% dei votanti dice no. La ragione è semplice: perché dover pagare tutti gli effetti di una crisi di cui sono responsabili i banchieri, protetti e coccolati dall’Fmi e dal sistema finanziario che tiene sotto ricatto il paese? La rappresaglia non si fa attendere: l’Fmi congela immediatamente gli aiuti.
Solo a questo punto il governo di sinistra, coi forconi puntati davanti al parlamento, si decide al gran passo: denuncia e fa arrestare i bankers. L’Interpol emana un ordine internazionale di arresto contro l’ex-Presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson. In questo clima da resa dei conti, lo scorso novembre si riunisce un’assemblea costituente per scrivere una nuova Costituzione che rifondi il piccolo Stato islandese sottraendolo allo strapotere del denaro virtuale. Il criterio con cui essa viene eletta vuol dare il segnale di un rinnovamento reale, profondo: si scelgono 25 cittadini senza appartenenza politica tra i 522 che hanno presentato la loro candidatura, per la quale era necessario solo essere maggiorenni ed avere l’appoggio di trenta persone. La nuova magna charta sta per essere presentata proprio in questo periodo” (di Alessio Mannino, Il Ribelle.com, 11 marzo 2011)
L’ex primo ministro Geir Haarde è rimasto solo. Rischia due anni di carcere. All’apertura del processo, davanti alla Corte Suprema, ha dichiarato: “Tutto questo è una farsa politica. Sono una vittima di persecuzione da parte di vecchi nemici”. Le udienze si stanno svolgendo a porte chiuse. I cittadini non sono soddisfatti. Tempestano blog, forum e social network di commenti rabbiosi: “perché giudicare soltanto lui? E gli altri responsabili?”.
In fondo il vero uomo forte dell’establishment islandese era (ed è, dicono gli islandesi) David Oddsson, direttore della Banca Centrale al momento del crash. E lui che l’opinione pubblica giudica direttamente responsabile per il “disastro nazionale”. Ma Oddsson non è imputato davanti alla Corte Suprema. Oggi fa l’editorialista per il Morgunbladid, il più importante quotidiano nazionale.
Sarà un caso, ma le cronache del processo sono ipergarantiste. Il giornale minimizza, getta acqua sul fuoco. D’altronde Geir Haarde e David Oddsson sono culo e camicia fin dai tempi del liceo. Haarde governava ma era Oddsson a comandare.
Negli ultimi due anni, l’Islanda, ancora sotto shock, ha cercato di far luce sulla bancarotta. Su incarico del Parlamento, un comitato di saggi ha indagato a fondo sulle responsabilità. Il risultato è un dossier di nove volumi, 2900 pagine, 147 persone coinvolte.
La relazione è stata resa pubblica ad aprile 2010 ed è diventata un best seller. Alla fine, però, sul banco degli imputati c’è soltanto l’ex Primo ministro. La sentenza è attesa entro aprile. Comunque vada il processo, il mondo intero dovrà tenere conto del tabù che è stato infranto.
Gli islandesi cercano di voltare pagina. Hanno riscritto insieme la Costituzione, discutendo anche sui social network. Il Parlamento dovrà approvarla entro il 2015, prima delle elezioni legislative. Ci sarà anche un referendum popolare.
“Chiunque poteva seguire i progressi della costituzione davanti ai propri occhi. Le riunioni del Consiglio erano trasmesse in streaming online e chiunque poteva commentare le bozze e lanciare da casa le proprie proposte. Veniva così ribaltato il concetto per cui le basi di una nazione vanno poste in stanze buie e segrete, per mano di pochi saggi. La costituzione scaturita da questo processo partecipato di democrazia diretta verrà sottoposta al vaglio del parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni” . (Andrea degl’Innocenti, Il Cambiamento, 13 luglio 2011).
Oggi il Paese discute dell’ingresso nell’Unione Europea e dell’eventuale adesione all’euro. Il mese scorso un sondaggio Gallup Capacent ha mostrato che il 56,2 per cento dei cittadini è contrario. Si vedrà. Adesso, però, l’Islanda non è più soltanto un puntolino sulla mappa geografica.
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Argomenti: unione europea