Un debito da 408 milioni di dollari che l’Egitto, o meglio 637mila lavoratori egiziani, chiedono indietro al governo iracheno. La questione delle cosiddette “yellow remittances”, le rimesse dorate, sta occupando da un anno i rapporti diplomatici ed economici tra Bahdad e il Cairo. Un debito dalle lontane origini, che riporta all’ordine del giorno la prima Guerra del Golfo.
All’epoca, nei primi anni Novanta, circa 637mila lavoratori egiziani impiegati in Iraq lasciarono il Paese a causa dell’invasione del Kuwait da parte del regime di Saddam Hussein e della conseguente guerra scatenata dagli Stati Uniti. Da allora i lavoratori in questione, costretti ad abbandonare in tutta fretta imprese e affari, non hanno mai avuto indietro il denaro versato nelle casse delle autorità irachene: 408 milioni di dollari che potrebbero trasformarsi in un miliardo e 700 milioni di dollari tenendo conto degli stratosferici interessi maturati nel corso di 22 anni.
Si tratta delle rimesse che lavoratori e imprenditori egiziani di stanza in Iraq giravano alle famiglie rimaste in patria e che, secondo il sistema finanziario iracheno, dovevano passare per le filiali bancarie del governo. Le autorità irachene avrebbero successivamente trasferito il denaro a banche egiziane attraverso ordini di pagamento. Ma con lo scoppio della guerra e l’embargo economico imposto all’Iraq dai poteri occidentali, le banche irachene congelarono le rimesse e i relativi trasferimenti. Per 22 anni.
Martedì una delegazione del Ministero degli Esteri egiziano è atterrata a Baghdad per riprendere in mano i negoziati in merito alle rimesse dorate iniziati un anno fa. Mohamed Mostafa Kamal, viceministro degli Esteri, ha incontrato Hoshyar Zebari del Ministero iracheno per fare pressioni sul governo di Nouri al Maliki: i debiti vanno pagati. Subito. Debiti individuali, non di Stato, quindi non soggetti alle leggi internazionali sugli accordi bilaterali per la loro remissione.
L’incontro tra Baghdad e il Cairo arriva dopo le dichiarazioni della scorsa settimana di un parlamentare egiziano, Sabir Abul-Fotouh, che invitava caldamente il suo governo a boicottare il meeting della Lega Araba nella capitale irachena se Maliki non avesse fornito risposte chiare e concrete alla questione. Richiamando il mito di Tahrir Square, Abul-Fotouh ha messo in guardia la controparte: la “rabbia egiziana” è pronta a scatenarsi se l’Iraq prosegue nella dilazione del pagamento.
Una questione vecchia di 22 anni, ma che solo un anno fa, dopo la caduta del regime di Hosni Mubarak, è tornata agli onori delle cronache. Ad agosto del 2011 sembrava che i due governi fossero giunti ad un accordo, un’intesa presto stracciata: l’Iraq, disposto a pagare i 408 milioni di dollari di debito, non intende coprire anche gli interessi maturati in due decadi, proposta che l’Egitto ha definito “inaccettabile”. Interessi che farebbero schizzare il debito iracheno verso i lavoratori egiziani a oltre un miliardo e 700 milioni di dollari.
Per decenni, in particolare sotto i regimi di Saddam Hussein e Hosni Mubarak, il mondo arabo ha fatto da palcoscenico alla competizione tra Iraq ed Egitto. Con la Siria a fare da terzo attore, il potere e le influenze che i due dittatori hanno saputo gestire hanno permesso loro di diventare i volti del mondo arabo a livello globale, o nelle vesti di alleati o in quelle di nemici dell’Occidente. Come spiega Aaron David Miller dalle colonne del Los Angeles Time, l’Egitto teneva in mano e gestiva la pace con Israele, mentre all’Iraq andava il compito di mantenere l’equilibrio geopolitico nel Golfo Persico.
Uno status quo non facile da tenere in piedi e venuto meno con il crollo del regime di Saddam. E mentre l’Egitto tenta di riprendersi il ruolo di leader del mondo arabo, l’Iraq è impantanato in una ricostruzione violenta e settaria, uno Stato disfunzionale incapace a risollevarsi da otto anni di occupazione militare americana.
E a competere per un posto al sole mediorientale sono ora rimasti Iran, Turchia e Paesi del Golfo.
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