Puo’ la resistenza popolare non violenta mettere fine all’occupazione israeliana? Come a Bil’in, che proprio oggi celebra con un grande raduno il settimo anniversario della sua battaglia contro il Muro costruito da Israele in Cisgiordania? Sami Awad, direttore esecutivo dell’Holy Land Trust (Hlt) non sembra avere alcun dubbio sull’efficacia di questa via come strategia per combattere la politica israeliana di colonizzazione ed occupazione della terra.
Questa organizzazione non profit con base a Betlemme, fondata nel 1998, promuove programmi che mirano a dare maggior potere alla comunità locale attraverso la diffusione del concetto e della pratica della resistenza popolare non violenta.
“Abbiamo appena finito un workshop con le donne, che ha avuto molto successo” ha raccontato Sami all’agenzia on-line the Media Line – Le donne hanno un ruolo estremamente importante in questo movimento non violento. Il nostro scopo è quello di dare voce a coloro che sono o si sentono maggiormente marginalizzati dalla società”.
Tuttavia, ha continuato Sami, “la nostra lotta è spesso oggetto di critiche da parte di molti palestinesi che ci considerano dei pacifisti pronti a scendere a compromessi con l’occupante israeliano”. Il primo ostacolo da affrontare è quello linguistico: per alcuni in arabo il termine non-violenza (al-la’unf) indica qualcosa di negativo perchè nega il diritto di rispondere alla violenza dell’occupante. Per questo i termini che di solito vengono utilizzati per definire questo tipo di resistenza sono “resistenza popolare” oppure “resistenza civile”.
All’interno della società civile palestinese vi è un aperto e vivo dibattito tra chi ritiene la scelta violenta un suicidio politico e chi invece un diritto del popolo, tra chi ritiene l’opzione non-violenza la sola alternativa possibile contro l’occupazione e chi una forma blanda di lotta.
“Più che di resistenza violenta e non violenta, noi palestinesi parliamo di resistenza armata e non armata” ha spiegato Fayez ‘Arafat direttore del Centro Yafa nel campo profughi di Balata (Nablus) – Negli ultimi anni sono fioriti centinaia di progetti a sostegno della non-violenza, finanziati dalla comunità internazionale. Con questo non voglio criticare la lotta non armata come strategia nazionale, ma voglio mettere in luce che la resistenza armata è un diritto del popolo palestinese, così come viene riconosciuto dalla quarta Convenzione di Ginevra”. Infatti, la comunità internazionale, se da un lato sembra riconoscere ad Israele il diritto alla sicurezza, dall’altro definisce come mero terrorismo ogni forma di violenza armata da parte dei palestinesi.
Il secondo ostacolo riguarda proprio questa diffidenza diffusa all’interno della società palestinese sui nuovi movimenti di resistenza non violenta: sono espressione di una reale scelta nazionale o sono una risposta alle richieste della comunità internazionale? Secondo molti palestinesi la comunità internazionale sta manovrando, attraverso i finanziamenti, la resistenza popolare palestinese. “Resistere ora è diventato un lavoro” ha raccontato a Nena News Abd al-Hakim, attivista palestinese ed esponente politico di Nablus– centinaia di palestinesi hanno scelto la strategia della non-violenza solo perchè in questo modo ricevono denaro dall’estero. E’ necessario tornare alla resistenza, quella vera, volontaria, gratuita, fatta in nome della patria, non del denaro. Una resistenza che può anche essere non violenta, ma che, a priori, non deve escludere la violenza”.
Anche il coinvolgimento di internazionali ed israeliani viene spesso letto in modo negativo. “A volte capita che il numero di attivisti internazionali sia maggiore di quello dei palestinesi” ha spiegato Sami – ma questo di per sé non è qualcosa da criticare: è fondamentale sottolineare che essi partecipano alle nostre iniziative per capire in che modo possono aiutare i palestinesi a porre fine all’occupazione, non per imporre la loro visione della realtà”. E gli fanno eco le parole di Mubarak Awad, fondatore del centro palestinese per gli studi sulla non-violenza: “La lotta non-violenta è una lotta seria e globale, niente di meno che una guerra reale. Essa non è né negativa né passiva, ma richiede un allenamento speciale ed un alto grado di disciplina ed organizzazione”.
Ed forse è proprio l’organizzazione il terzo ostacolo a questa strategia di lotta: infatti per tornare ad avere la stessa partecipazione di popolo della Prima Intifada è necessario ricreare la stessa unità, sia dal punto di vista geografico che politico. E quello che manca ora è la continuità territoriale tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania ed una leadership politica forte. “Abbiamo bisogno di unità, di organizzazione, di un leader forte e carismatico, di un Gandhi palestinese” ha concluso Sami.
Nel frattempo il popolo palestinese continua a resistere: e la lotta non si limita alle manifestazioni settimanali contro il muro, che godono di una massiccia copertura mediatica. Resistere è anche continuare a vivere sotto una tenda perché la propria casa è stata distrutta; resistere è costruire una scuola in area C per garantire il diritto all’istruzione a coloro ai quali viene negato; resistere è continuare a coltivare con amore la propria terra nonostante venga periodicamente spianata dai bulldozer israeliani; resistere è attendere con pazienza 4 ore al check-point per poter andare a lavorare.