Iraq ad un passo dalla guerra civile

Sempre più violenti gli attacchi terroristici e gli scontri armati tra sunniti e sciiti. Mentre il premier Maliki spinge il governo verso derive autoritarie.

Iraq ad un passo dalla guerra civile
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9 Gennaio 2012 - 12.16


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di Emma Mancini

L’Iraq sull’orlo della guerra civile. Il Paese sta vivendo in questi mesi una pericolosa divisione politica interna e l’ondata di violenze più dura dal 2006, anno apice degli attacchi terroristici. Ultimi in ordine di tempo gli attentati di ieri e di giovedì scorso che hanno preso di mira Baghdad e il Sud dell’Iraq.

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Ieri due bombe sono esplose a Nord della città di Karbala, nell’Iraq meridionale, uccidendo due pellegrini sciiti e ferendone 13. Le vittime stavano prendendo parte insieme a migliaia di fedeli ad una celebrazione religiosa nella città santa, la commemorazione del nipote del profeta Maometto. Pochi giorni prima, il 5 gennaio scorso, 73 morti e 140 feriti erano stati il bilancio di una serie di attacchi combinati contro la popolazione sciita nella capitale e a Sud. A Baghdad, due bombe sono esplose nel quartiere povero di Sadr City, uccidendo circa 10 persone e ferendone 37, e due autobombe sono saltate in aria in quello di Kadhmiya, provocando almeno 13 morti e 32 feriti. Intanto, a Ovest di Nassiriya, un uomo si è fatto esplodere ad un checkpoint dove stava transitando un gruppo di pellegrini sciiti: 44 morti e 81 feriti.

E le profonde divisioni confessionali tradotte in esplosivo si riverberano a livello politico, dove il governo di unità nazionale dello sciita Nour al-Maliki non solo si sta dimostrando incapace di gestire la sicurezza, ma pare impegnato a inasprire i settarismi. Dopo il ritiro delle truppe americane di stanza in Iraq dal 2003, lo scorso 22 dicembre, il premier Maliki ha spiccato un mandato d’arresto per il vice presidente iracheno Tariq Al Hashimi, membro del partito sunnita Iraqiya. L’accusa: aver organizzato un attentato contro la sede del Parlamento a novembre e aver ordito un colpo di stato atto a rovesciare l’attuale governo.

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Al Hashimi aveva cercato riparo nella regione autonoma del Kurdistan. È di oggi la notizia della formale richiesta da parte delle autorità irachene a quelle della regione curda di consegnare il vice presidente e altri 12 membri del suo entourage. “Abbiamo inviato ieri una richiesta ufficiale al Ministero dell’Interno e alle forze di sicurezza del Kurdistan, chiedendo la consegna di Al-Hashimi e di altri 12 sospetti alla magistratura di Baghdad”, ha detto all’agenzia Reuters il generale Kamal, vice ministro degli Interni iracheno.

Ma se il mandato d’arresto contro Al-Hashimi ne è l’esempio più spettacolare, le divisioni che stanno spezzando un governo retto da sciiti, sunniti e curdi sono diventate fonte di seria preoccupazione sia per Baghdad che per gli Stati Uniti, spaventati da un possibile avvicinamento dell’Iran. Da parte sua il premier Maliki ha da poco varato un ampio piano di rafforzamento delle forze di sicurezza irachene: le nuova dotazioni prevedono l’arrivo di 360 blindati russi Bmp 1, di 600 blindati leggeri polacchi De Zec 60 e altri mezzi americani, mentre l’aviazione sarà arricchita da circa 30 cacciabombardieri F-16.
Un esercito chiamato per lo più a fronteggiare le violenze interne e incapace a difendere il Paese da eventuali minacce esterne, soprattutto dopo il ritiro delle truppe statunitensi.

Dopo la partenza dei soldati americani, le tensioni sono riesplose con violenza, gli scontri armati tra sunniti e sciiti si fanno sempre più numerosi rendendo visibile l’incapacità di un governo sempre più autoritario a gestire un Paese profondamente instabile. E mentre il partito di Moqdata Al Sadr, vicino all’Iran di Ahmadinejad, chiede elezioni anticipate, le fazioni sciite più estremiste minacciano di togliere il loro essenziale appoggio al governo di Maliki.

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Dall’altra parte sta il partito sunnita Iraqiya che dopo il mandato d’arresto contro il suo esponente Al-Hashimi aveva deciso di sospendere la partecipazione dei suoi membri alle sedute parlamentari. È del 27 dicembre scorso un editoriale apparso sul New York Times dove tre alti esponenti del partito accusavano Maliki di condurre il Paese verso la guerra civile. Lo speaker del parlamento Osama al-Nujaifi, il leader Ayad Allawi e il ministro delle Finanze Rafe al-Essawi hanno espressamente parlato di un Iraq sull’orlo del baratro, costretto in un’autocrazia settaria che potrebbe sfociare in guerra civile.

“Le nostre case e i nostri uffici a Baghdad sono circondati dalle forze di sicurezza di Maliki – hanno scritto i tre leader di Iraqiya – Il primo ministro ha posto sotto assedio il nostro partito, con la benedizione della magistratura politicizzata e di un sistema legislativo che sono diventati estensioni virtuali del potere del premier”.

Una simile crisi politica interna rischia di mettere in pericolo i successi realizzati sul piano economico, in particolar modo nella produzione di petrolio. Per la prima volta dalla prima guerra del Golfo, l’Iraq ha raggiunto una produzione giornaliera di greggio superiore ai tre milioni di barili e entro la fine dell’anno potrebbe arrivare ad esportarne oltre 2 milioni e mezzo. Una produzione essenziale, non solo per Baghdad: l’Europa ha l’impellente necessità di coprire il buco lasciato dalla perdita del petrolio iraniano, perdita dovuta alle sanzioni economiche che l’Occidente ha imposto a Teheran, e di quello della Libia, ancora invischiata in una lenta stabilizzazione interna.

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L’Iraq è ad oggi fortemente dipendente dall’estrema ricchezza del suo sottosuolo, pari solo a quella dell’Arabia Saudita. Basti pensare che il 90% dell’export iracheno è dato dalla vendita di greggio, ben il 60% delle sue entrate totali. Un settore che richiede investimenti seri e riforme mirate, difficilmente realizzabili da un governo spezzato da settarismi come quello di unità nazionale guidato da Maliki. Ne è un esempio la mancata approvazione della legge sugli idrocarburi, necessaria a dividere i proventi del petrolio tra le diverse province irachene e a gestire le esportazioni energetiche dalla regione autonoma del Kurdistan che a novembre ha firmato un accordo separato con la compagnia petrolifera statunitense Exxon.

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