Ahmet Sik stava completando il suo libro-inchiesta sulla polizia turca quando venne arrestato con l’accusa di «propaganda per conto di un’organizzazione illegale» il 3 marzo di quest’anno. Il libro che stava scrivendo doveva essere pubblicato con il titolo «L’esercito dell’Imam» e raccontava il modo in cui – secondo l’autore – la polizia era stata lentamente infiltrata ed egemonizzata da un gruppo islamista che fa capo a Fetullah Gulen: personaggio molto discusso in Turchia, considerato da alcuni il successore della tradizione colta e moderna dell’islam anatolico, da altri la mente di una lenta e costante re-islamizzazione del paese, di cui il partito attualmente al governo sarebbe soltanto l’esecutore materiale.
L’organizzazione di cui è accusato di far parte Sik si chiama Ergenekon. Secondo la magistratura, è una struttura che cospira per rovesciare il governo democraticamente eletto di Recep Tayyip Erdogan, con mezzi legali e illegali. Ne farebbero parte giudici, ufficiali dell’esercito, professori universitari, giornalisti. Ossia il cuore sociale della vecchia elite nazionalista e laicista che si ispira ai pensieri e alle opere di Kemal Ataturk, fondatore della Repubblica turca e fervente occidentalista.
Il libro di Sik – l’arma del delitto – è stato sequestrato dalla magistratura venti giorni dopo il suo arresto, per impedire la diffusione tramite esso di idee considerate eversive.
Una settimana dopo, però, il volume di Sik era integralmente online e disponibile per essere scaricato, letto e diffuso dagli utenti turchi. Prima di finire in manette, infatti, il giornalista aveva spedito le bozze del volume a colleghi e scrittori, i quali, le hanno prima pubblicate online anonimamente, poi le hanno usate per far uscire, a inizio dicembre, il libro interdetto dalla magistratura. Firmando collettivamente il testo (più di cento persone) e sfidando così le autorità turche: come a dire, adesso arrestateci tutti.
Ahmet Sik è diventato il simbolo di una battaglia che le associazioni per i diritti umani stanno combattendo contro gli arresti disposti ai danni dei giornalisti: attualmente ce ne sono in galera quasi centoventi, e gli ultimi trentotto sono stati arrestati soltanto martedì. Sik comparirà davanti alla corte penale entro la fine del mese e le organizzazioni umanitarie hanno elevato il suo caso a emblema di una libertà d’espressione violata, sostenendo che un paese che aspira a diventare membro dell’Unione Europea non può permettersi di tappare la bocca ai giornalisti. Né tantomeno può usare la repressione della magistratura per limitare la libertà d’opinione e di parola.
L’unico responsabile dell’arretramento della linea della libertà che viene individuato è il governo di Recep Tayyip Erdogan. Ma la realtà della situazione merita di essere trattata con un tantino di attenzione in più. Perché i giornalisti che sono in galera non lo sono per gli stessi identici motivi. La maggior parte di loro (ottanta) è in manette perché accusata di complicità con il partito dei lavoratori curdo, il famigerato Pkk, un’organizzazione considerata terroristica oltre che da Ankara anche da Stati Uniti ed Unione Europea.
Finire in gattabuia per la presunta vicinanza con il Pkk però è una cosa relativamente semplice in Turchia e, nei fatti – secondo molte organizzazioni terze, come l’International Crisis Group -, succede anche a persone che con il Pkk non hanno, e non hanno mai avuto niente a che fare. La minaccia curda è in realtà una paura con cui i turchi sono educati a crescere sin dalle scuole elementari. In suo nome, sono stati autorizzati soprusi di ogni genere e ancora oggi continua a essere un alibi per legittimare abusi di potere vari.
Ma nessuna delle forze politiche di opposizione che siedono oggi in parlamento (escluso il partito filo-curdo) – le più importanti delle quali gridano oggi alla libertà violata – è disposta a mettere in discussione i termini di legge che consentono tali limitazioni della libertà. La drammaticità della situazione sta proprio nel fatto che la maggior parte dei giornalisti che oggi è in galera rimarrebbe in galera anche se la maggioranza di governo dovesse cambiare domani mattina.
Così, se si esclude un’altra decina di giornalisti finiti in manette perché accusati di spalleggiare organizzazioni di estrema sinistra, e che alla stregua dei curdi rimarrebbero dove sono anche con un’altra maggioranza di governo, il vero nodo dello scandalo politico riguarda in realtà una dozzina di reporter – tra cui Sik – accusati di far parte, come accennavamo, dell’associazione Ergenekon. Ergenekon è una rete accusata di aver tentato di rovesciare con l’aiuto dell’esercito il governo Erdogan. Un fatto tutt’altro che insolito nella storia della Turchia, che, dalla sua fondazione a oggi, ha visto compiere ben quattro colpi di stato.
Questo, naturalmente, non giustifica nemmeno uno degli arresti che sono stati disposti. Ma la faccenda dei giornalisti in galera tocca un punto molto delicato dell’ordinamento giuridico turco. Il quale è organizzato per difendersi da minacce che a volte sono soltanto immaginarie, consentendo a chiunque sia al governo di usarle a proprio vantaggio.
La presunta illibelarità del governo Erdogan -che pure non è certo un sincero democratico- è una questione che va maneggiata con molta cautela. I primi due governi Erdogan hanno avuto infatti il merito -in contemporanea con l’entusiasmo creato dalla prospettiva dell’adesione all’Unione Europea- di aprire un sistema che è stato per decenni sotto la tutela del potere militare. La diminuzione del potere dell’esercito è stata un’operazione che il partito di governo (erede dei partiti che nella storia della Turchia sono stati chiusi con la forza, nonostante contassero sul voto dei cittadini) ha portato avanti sistematicamente.
Usando, anche mediaticamente, l’inchiesta Ergenekon (sostenuto, in questo, da tutti gli osservatori internazionali, inclusa l’Unione Europea). L’iniziativa di Erdogan e i suoi ha avuto il merito di metter in discussione persone posizionate a più alti gradi dell’esercito, le quali, dopo aver esercitato per anni un potere sciolto da ogni legge, sono state chiamate a rispondere delle loro azioni davanti ai tribunali (come in ogni stato di diritto).
Quando il processo di adesione all’unione Europea ha cominciato a bloccarsi, per veti politici e culturali, l’avviata apertura del sistema politico turco ha iniziato a rallentare a sua volta. L’inchiesta Ergenekon ha sempre di più assunto i tratti di un teorema e molto più frequentemente le persone hanno cominciato a essere private della libertà sulla base di prove anche deboli e spesso costrette a lunghi arresti preventivi. Il paradosso di un paese che chiede di aderire all’Unione Europea ma che consente che accadano cose che nell’unione Europea non potrebbero mai accadere è visibile anche a occhio nudo.
Ma chi conosce la Turchia da abbastanza tempo sa che il solo sperare di poter fare parte, prima o poi, dell’UE ha innescato nel paese dei cambiamenti democratici che sembravano impensabili sino a pochi anni prima. Se dunque oggi si è arrivato a registrare un arretramento della linea della libertà, non a caso in contemporanea con lo stallo dei negoziati europei, non bisogna certo togliere responsabilità a chi questo arretramento l’ha determinato.
Ma bisognerebbe quantomeno non far finta di non vedere che chiudere le porte dell’Unione in faccia, dopo averle aperte, sta avendo delle ricadute molto gravi in termini di libertà. Non solo.
Sta lentamente facendo passare l’idea – molto dannosa – che non è la democrazia il vero requisito per guadagnarsi l’Unione Europea. Mentre da parte loro, le classi dirigenti europee, farebbero bene a non usare la matita rossa solo quando gli errori sono imputabili agli altri.
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