Dopo otto anni, otto mesi e 26 giorni, si è chiuso ieri il sipario sulla partecipazione Usa alla guerra in Iraq. L’ammainabandiera del vessillo a Stelle e Strisce, da una parte segna il definitivo ritiro delle truppe americane (ad eccezione per i marines rimasti a difendere l’enorme Ambasciata nella Green Zone a Baghdad), dall’altra apre il sipario su uno scenario regionale che dovrà fare i conti con quello che è l’Iraq di oggi, estremamente vulnerabile sul piano militare, nei confronti di al-Qaeda e delle mire iraniane che sul territorio dell’ex nemico storico mantengono agenti sabotatori infiltrati.
Secondo il quotidiano britannico The Guardian in Iraq si annidano centinaia, se non migliaia, di uomini di Teheran. Gli interessi iraniani a Baghdad, indica un’analisi dello stesso giornale, sono garantiti in Parlamento dai seguaci del leader Sciita Moqtada al-Sadr e per le strade del paese dalle sue milizie Mahdi. La cerimonia di commiato Usa di ieri è stata preceduta da un attentato al più grande impianto di pozzi petroliferi nel sud del paese, che ne ha dimezzato la produzione giornaliera (da 1,4 milioni di barili a 700mila). Le riserve irachene di greggio permettono di continuare le esportazioni, ma il danno è enorme.
L’Iraq che vede dagli Usa Barak Obama è un paese in cui tutto va bene. Gli americani lasciano l’Iraq a testa alta ha detto Obama parlando dalla base di Fort Bragg, nel North Carolina mercoledì. «Bentornati a casa», ha detto Obama ringraziando i soldati che hanno servito in Iraq, un «successo straordinario» delle forze Usa nella sua visione, ben diversa da quella che si respira nelle strade di qualunque angolo del Medio Oriente. «Ci lasciamo alle spalle un Iraq sovrano e stabile» ha detto ancora Obama, rendendo omaggio ai 4500 soldati Usa morti per questa guerra, a cui si aggiungono quelli degli altri paesi, Italia compresa, che hanno partecipato all’avventura bellica.
Mentre Obama applaudiva le sue truppe, a Falluja (primo bastione della resistenza contro la presenza americana), si festeggiava il ritiro Usa. E come potrebbe essere altrimenti? Il tributo di sangue pagato dalla popolazione di questo grande paese resta incalcolabile. Gli iracheni uccisi per l’invasione del 2003 e le conseguenze che ha portato, come il conflitto settario, sono decine di migliaia. Un sacrificio, sia quello dei soldati, che quello dei civili, basato sull’inganno della pistola fumante di Saddam Hussein, che non solo non esisteva, ma che non c’entrava nulla con gli attentati dell’11 settembre.
Al contrario, a Saddam Hussein, per quanto sia stato un dittatore sanguinario che reprimeva il suo popolo, va riconosciuto il merito di aver tenuto a bada al-Qaeda in Iraq. Solo dopo la fine dell’ex Raìs quest’ultima ha avuto mano libera nel paese, con tragiche le tragiche conseguenze del caso. La gratitudine dell’Iraq agli Usa si è vista tutta alla cerimonia di commiato degli alleati americani, a cui ieri hanno brillato per assenza sia il Primo Ministro Nouri al Maliki, che il presidente Talabani. Obama ha inviato in Iraq per l’occasione Leon Panetta proveniente dall’Afghanistan, altro “successo” di cui la popolazione locale non si è accorta.
A proposito di successo, la guerra in Iraq è costata almeno mille miliardi di dollari. Qualche impatto sulla crisi economica l’ha avuto. Come ha avuto conseguenze sulla sepoltura nella pattumiera della storia del modello democratico americano. Le sole vere ventate democratiche nella Regione sono arrivate con la primavera araba, con cui l’Occidente non c’entra nulla. La guerra in Iraq ha anche segnato, anzi, immortalato, nel vero senso della parola, la mancanza di credibilità degli Usa in quanto a diritti umani: Abu Ghraib, un nome che la dice tutta. No, gli iracheni non sono certo affranti nel salutare i marines. Sono piuttosto angosciati per quello che verrà dopo. L’incertezza per il domani che ancora li attende, dopo tutto quello che hanno sopportato in questi otto anni.
Il Generale iracheno Zebari ha dichiarato di recente che l’esercito di Baghdad non sarà in grado di difendere il proprio spazio aereo fino al 2020, mentre il Capo dell’Intelligence Hatem al-Masousi, ha detto che le forze di sicurezza irachene impiegheranno realisticamente settimane per mettere a punto operazioni di sicurezza che con l’appoggio Usa si facevano in un giorno. Chi è esperto del conflitto regionale che oppone da una parte il fronte sunnita capeggiato dai sauditi, alleato degli Usa, e dall’altra il fronte sciita che fa capo a Teheran, sostiene che la guerra in Iraq non l’anno persa gli americani, ma che l’ha vinta l’Iran. Paese che ha tentato di indebolire il vicino da tempo immemore, riuscendo nell’impresa con l’aiuto involontario “dei nostri”.