Il petro-emiro del Kuwait e le elezioni tarocco
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Il petro-emiro del Kuwait e le elezioni tarocco

Per questo ha sciolto il parlamento, sperando che nuove elezioni (farsa) possano scongiurare future proteste popolari, sull'onda delle rivolte arabe.

Il petro-emiro del Kuwait e le elezioni tarocco
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7 Dicembre 2011 - 09.57


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di Michele Giorgio

Lo scioglimento del parlamento del Kuwait era nell’aria da giorni. E l’annuncio ufficiale è arrivato ieri. Mandare a casa i deputati è l’asso che l’emiro Sabah al-Ahmed Al-Sabah cala sempre nei momenti più critici. E’ già capitato quattro volte dal 2006 e la decisione era praticamente certa dopo le dimissioni presentate il 28 novembre dal capo di governo (e nipote dell’emiro) Nasser Al-Sabah, chiamato in parlamento a rispondere di accuse di corruzione.

Sciogliendo la Camera e aprendo la strada a nuove elezioni, Al-Sabah punta a guadagnare tempo nella speranza di mettere a tacere, con le buone o con le cattive, il dissenso che aumenta con il trascorrere delle settimane.

Il reddito pro-capite elevato e il generoso walfare di cui gode la popolazione, non hanno salvato dal vento delle rivolte arabe questo piccolo petro-emirato schiacciato tra Iraq e Arabia saudita, custode del 10% delle riserve mondiali di greggio e fedele alleato degli Stati uniti. Gli scontri del mese scorso tra manifestanti e polizia, culminati nell’assalto al parlamento da parte di un migliaio di persone, sono stati un segnale inequivocabile per Al-Sabah del fermento che agita anche il suo paese, dove, peraltro, è presente una significativa minoranza sciita (30% della popolazione).

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«Quello che è accaduto è anormale, quando i manifestanti sono entrati con la forza nel parlamento per noi è stato un giorno nero», aveva affermato l’emiro, deciso a non chiedere le dimissioni del premier. Aveva anche ordinato al governo di «prendere tutte le misure necessarie per contrastare le azioni che potrebbero minacciare la sicurezza del paese», lasciando capire che non avrebbe esitato ad usare la forza per schiacciare nuove proteste popolari. Naturalmente al Sabah non aveva mancato di chiamare in causa l’Iran che le monarchie arabe del Golfo accusano di fomentare rivolte tra le popolazioni sciite dei loro paesi, retti da dinastie sunnite.

Lo aveva fatto lo scorso marzo anche re Hamad del Bahrain per giustificare la repressione violenta attuata nel suo paese (con l’aiuto di truppe saudite). Ma è stato inutile. La protesta che in Kuwait covava sotto la cenere dalle ultime elezioni-farsa del 2009, ha scosso anche i vertici del potere visto che l’emiro ha dovuto prima accettare le dimissioni del nipote-premier e poi scegliere la strada di nuove votazioni, nella speranza di contenere il dissenso. I rischi per l’emiro tuttavia rimangono, per ora, contenuti, anche perchè gli alleati americani fanno sapere di essere pronti a dare una mano al mantenimento della «stabilità» del Kuwait, paese che considerano centrale per i loro interessi nel Golfo e per il quale hanno combattuto una guerra distruttiva contro l’Iraq nel 1991.

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Washington nei giorni scorsi ha segnalato che sta prendendo in considerazione la possibilità di incrementare la propria presenza militare in Kuwait. Il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore interarmi, ha detto che l’esercito Usa dovrebbe inviare in Kuwait truppe navali, aeree e di terra. «L’invio soldati in Kuwait non è legato al ritiro delle truppe americane dall’Iraq, ma al pericolo di un Iran sempre più assertivo», ha spiegato Dempsey, confermando ancora una volta che per Washington la democrazia deve essere imposta, anche con la forza, in certi paesi arabi – Libia e Siria, ad esempio – ma non nelle alleate petro-monarchie del Golfo dove i regnanti negano diritti fondamentali alle loro popolazioni.
Gli Usa hanno quasi 29.000 soldati in Kuwait, una presenza superiore agli attuali 24.000 soldati in Iraq e circa quattro volte più imponente rispetto alle truppe nelle basi americane in Bahrain e Qatar che contano rispettivamente quasi 7.000 soldati.

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