Sanzioni turche, contro Bashar
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Sanzioni turche, contro Bashar

Il ministro degli Esteri di Ankara dice che fino a quando un governo in pace non guiderà la Siria, il meccanismo della Cooperazione strategica di alto livello sarà bloccato.

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1 Dicembre 2011 - 16.16


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di Nicola Mirenzi

Sospensione degli accordi finanziari, congelamento dei beni appartenenti ai membri del governo, blocco del rifornimento di armi. Alle parole, ieri, la Turchia ha fatto seguire i fatti. E annunciando l’imposizione delle sanzioni contro il regime di Bashar al-Assad in Siria, il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ha reso noto che, «fino a quando un governo legittimo in pace coi suoi cittadini non guiderà la Siria, il meccanismo della Cooperazione strategica di alto livello» tra Ankara e Damasco sarà bloccato. Mettendo un punto definitivo e ufficiale a quella collaborazione tra il governo di cui fa parte e il regime che si trova ora a contrastare che era stato sino a poco tempo fa assunto come un segno chiaro della nuova politica estera della Turchia – quella degli «zero problemi coi vicini».

L’utopia di tenere rapporti di buon vicinato con tutti gli stati confinanti nel medioriente, sebbene i vicini in questione fossero dittatori sanguinari come Assad, è durata sino a quando è durata la sopportazione delle persone che il capriccio di quei tiranni lo subivano ogni giorno. Le primavere arabe hanno costretto la Turchia a scegliere da che parte stare, quella delle piazze che rivendicavano il diritto alla democrazia o quella dei tiranni che quei desideri li avevano sempre frustati? Superato il tentennamento delle prime ore, Ankara ha scelto la prima opzione. E dopo aver cercato per mesi di convincere Assad a mollare la presa, a fare un passo indietro, aprendo il sistema politico siriano, il governo di Recep Tayyip Erdogan è stato l’esecutivo che più di tutti si è mosso sul campo per ottenere il cambio di regime.

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L’ultimo tabù è stato abbattuto martedì, con un’intervista televisiva, quando lo stesso Ahmet Davutoglu ha detto che – nonostante l’intenzione di evitare un intervento armato – la «Turchia è pronta a tutti gli scenari», incluso quello di creare con la forza una zona cuscinetto che serva a proteggere le persone che fuggono dalle violenze perpetrate dal regime di Assad. «Se un’intensificazione della repressione dovesse causare lo spostamento di una massa enorme di persone – ha spiegato Davutoglu – e decine di migliaia di uomini dovessero muoversi tra le frontiere non solo della Turchia ma anche di Giordania, Libano e Iraq noi dovremmo comportarci di conseguenza».

La Turchia attualmente sta offrendo ospitalità a 7500 siriani scappati dalla brutalità del regime nella città di Hatay, cinquecento miglia dal confine con la Siria. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso, costringendo la Turchia a varare le sanzioni annunciate ieri, è stato il rapporto del Consiglio per i diritti umani della Nazioni Unite pubblicato venerdì. Il quale documenta «esecuzioni sommarie, arresti arbitrari, sparizioni forzate, torture, incluse violenze sessuali, così come violazioni dei diritti dei bambini».

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Accanto all’iniziativa economica, Ankara ha però tenuto aperto (anzi, ha intensificato sempre di più) la sua strategia politica. Lunedì, sempre ad Hatay, una delegazione del Consiglio nazionale siriano (la cui formazione è stata annunciata a Istanbul il 23 agosto) ha incontrato gli alti ranghi dell’Esercito libero siriano (formatosi il 29 luglio), per discutere il sostegno che il gruppo politico darà al nucleo militare. Ankara giura di non sapere cosa si siano detti, sul suo territorio, i rappresentanti più alti dell’opposizione politica e armata al regime siriano. Difficile credergli. Anche perché la Turchia di Erdogan è stata la nazione che più ha sostenuto la creazione di un opposizione organizzata siriana. Ossia il cavallo pronto su cui puntare, una volta allontanato Assad.

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