Onu, il nuovo rapporto condanna il blocco a Gaza

Lo Special Committee per i Territori Occupati ha reiterato che Israele mantiene lo status di potenza occupante ed é tenuto al rispetto di obbligazioni di diritto internazionale.

Onu, il nuovo rapporto condanna il  blocco a Gaza
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27 Ottobre 2011 - 10.32


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di Davide Tundo*

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Durante la 66ma sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, apertasi a New York il 13 settembre, é stato presentato il 43mo rapporto dello “Special Committee to Investigate Israeli Practices Affecting the Human Rights of the Population of the Occupied Territories”.

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Istituito nel 1968 su impulso dell’assemblea Generale a seguito dell’occupazione israeliana di Gaza, Cisgiordania (con Gerusalemme Est) e Alti Siriani del Golan, questo Special Committee ha, secondo mandato, il compito di accertare pratiche e politiche di Israele lesive dei diritti umani delle popolazioni dei territori anzi detti.

Si tratta, dunque, di uno dei più longevi comitati ONU attivi, presumibilmente in carica fino alla cessazione dello stato di occupazione, composto da 3 stati membri delle Nazioni Unite, su nomina del presidente dell’Assemblea Generale. Attualmente ne fanno parte Sri Lanka, che svolge altresì funzioni di presidenza, Malaysia e Senegal.

Il rapporto, incaricato dalla medesima Assemblea Generale con la risoluzione 65/102 e basato su informazioni raccolte durante una field mission a Gaza, ha preso in esame il blocco di Gaza, le restrizioni della libertà di movimento e l’impatto umanitario sulla popolazione civile.

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Il rapporto ha inoltre incorporato altre questioni, quali la situazione dei bambini e la condizione dei detenuti palestinesi in Israele, incluse donne e bambini, e la confisca delle terre palestinesi, le demolizioni, l’espansione degli insediamenti dei coloni israeliani in Cisgiordania.

Inoltre, su esplicita richiesta dell’Assemblea Generale, lo Special Committee doveva riferire sulle eventuali violazioni, alla luce delle condotte sopra dette, della IV Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra commesse da Israele nei territori occupati.

La missione, condotta a Gaza dal 21 al 25 luglio, ha fornito dati utili per la stesura finale del rapporto, nonostante il persistente rifiuto di Israele di cooperare con lo Special Committee, peraltro mai riconosciuto dalle autorità israeliane fin dalla sua creazione. Incontri si sono svolti anche in Giordania, dal 26 al 28 luglio, e inoltre lo Special Committee ha potuto ascoltare, via teleconferenza, interlocutori degli Alti Siriani del Golan, inaccessibile alla luce della delicata situazione in Siria e dell’anzidetto rifiuto di Israele di facilitarne l’accesso ai membri del Committee.
Malgrado le limitazioni di cui sopra, lo Special Committee ha comunque potuto ascoltare vittime e testimoni palestinesi (solo in Gaza un totale di 24), israeliani e siriani, Ong e agenzie delle Nazioni Unite presenti sul territorio e visitato alcuni campi di rifugiati.

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Per ciò che concerne Gaza, le conclusioni del rapporto sono chiare.
Lo Special Committee ha reiterato, alla pari in passato di altre agenzie e comitati ONU, nonché della Corte Internazionale di Giustizia, che Israele mantiene lo status di potenza occupante, in Gaza come in Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) ed é, come tale, tenuto al rispetto di precise obbligazioni di diritto internazionale, incluso di diritto internazionale umanitario, e al rispetto dei diritti umani della popolazione civile sotto occupazione.
A dispetto di ciò, si legge nel rapporto, “il blocco da parte di Israele, in vigore da oltre 4 anni, continua a punire collettivamente la popolazione civile”, senza peraltro “minare le autorità di Gaza o aumentare la sicurezza di Israele” (par. 12). E’ opportuno ricordare che i civili sono protected persons secondo la IV Convenzione di Ginevra, e come tali dovrebbero ricevere appropriata tutela.

Il rapporto sottolinea che “questa punizione collettiva, in contrasto con le obbligazioni internazionali di Israele, ha un grave impatto sui bambini di Gaza” (par. 13) e che le restrizioni della libertà di movimento, elemento portante del blocco della Striscia, hanno fortemente danneggiato, tra gli altri, il settore agricolo e ittico.

Difatti, l’imposizione israeliana della “buffer-zone”, zone-cuscinetto lungo il confine con Israele, ha sottratto alla naturale destinazione agricola circa il 35% dell’intero territorio arabile di Gaza, precludendo cosi lavoro e sviluppo.
L’accesso a tali aree, nel cui perimetro sono ricadute case e coltivazioni e le cui dimensioni variano senza chiaro avviso fino a 1,5 km dal muro di separazione tra Israele e Gaza, è altamente rischioso a causa della sorveglianza armata israeliana, responsabile di un alto numero di vittime civili palestinesi, inclusi bambini e anziani.

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Israele ha altresì progressivamente ridotto, da 20 (ex Accordi di Oslo) a 3 miglia nautiche, la zona di mare nelle acque territoriali di Gaza il cui accesso è permesso alle imbarcazioni dei pescatori.

Tale regime, in vigore dal 2007, ha confinato migliaia di pescatori in una zona di mare cosi ristretta da presto divenire improduttiva fino a provocare il declino dell’industria ittica di Gaza e la perdita di centinaia di posti di lavoro.

Inoltre, l’uso della forza da parte della marina israeliana, in esclusivo controllo delle acque di Gaza, ha spesso fatto registrare vittime civili tra i pescatori.

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Analogamente a quanto accade nella “buffer-zone”, tale inosservanza del principio di distinzione tra civili e combattenti in un conflitto costituisce una violazione del diritto internazionale umanitario da parte di Israele.
Le restrizioni ai movimenti, alla base del blocco di Gaza, hanno colpito ogni settore produttivo: circa il 90% delle imprese locali hanno cessato l’attività per l’impossibilità di acquisire materie prime.

Ció ha comportato ripercussioni negative sui livelli occupazionali e il fabbisogno delle famiglie. A causa del blocco israeliano, oltre 90,000 palestinesi, un tempo impiegati in Israele, sono rimasti senza lavoro mentre in generale la disoccupazione ha raggiunto un picco del 40%. Oggi il 38% delle famiglie è vittima di insicurezza alimentaria e il 70% del totale della popolazione (circa 1,1 milione) dipende dagli aiuti umanitari.
E’ utile ricordare che Israele, oltre allo spazio aereo e marittimo, detiene l’esclusivo controllo del passaggio di merci e persone in entrata e uscita dalla Striscia di Gaza attraverso i due unici valichi di frontiera attualmente operativi, quello di Erez (Beit Hanoun) per il movimento di specifiche categorie di persone fisiche, e quello di Kerem Shalom (Abu Salem), per il movimento di merci autorizzate.

Il valico di Rafah alla frontiera con l’Egitto assicura il transito “condizionato” di un numero limitato di palestinesi di Gaza, ma non è adibito al traffico di merci.

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Dopo la caduta del regime di Mubarak, le nuove autorità egiziane hanno promesso di aumentarne la capacità operativa al fine di alleviare la situazione della popolazione di Gaza, altrimenti “artificialmente” isolata dal mondo esterno. Tuttavia le misure adottate non hanno avuto ancora un riscontro accettabile né, evidentemente, un potenziamento del valico di Rafah solleverebbe Israele dalle sue responsabilità legali internazionali come potenza occupante.

Il rapporto stigmatizza, dunque, la politica israeliana di restrizione delle importazioni di materiale edile che impedisce la urgente ricostruzione di edifici privati e infrastrutture pubbliche, comprese scuole e ospedali, danneggiate o distrutte dagli attacchi israeliani durante l’offensiva militare israeliana di dicembre 2008-gennaio 2009 (operazione Piombo Fuso).

La ricostruzione in Gaza, dunque, procede lentamente ed é inadeguata.
Significativamente, il rapporto ricorda che solo il 28% del piano di intervento di UNRWA, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, è stato approvato da Israele, al termine di un processo inutilmente ed eccessivamente burocratizzato e costoso. L’attuazione di tale piano, o meglio della porzione di esso approvata da Israele, è a sua volta rallentata dall’utilizzo di un unico valico commerciale (Kerem Shalom/Abu Salem) per l’entrata del materiale da costruzione autorizzato, a discapito di celerità ed efficienza. Il piano prevedeva, nella versione presentata alle autorità israeliane, la costruzione di 100 scuole e 10,000 unità abitative, a fronte di almeno 76mila necessarie anche alla luce della crescita della popolazione.

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Lo Special Committee sottolinea che Israele, mantenendo vigente il blocco della Striscia di Gaza e il regime di restrizioni ad esso associato, nega il flusso di beni, medicine e altri beni necessari in violazione della risoluzione 1860 (2009) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite[10] (par. 74).
Le conseguenze sulla popolazione di Gaza sono allarmanti e ben documentate in diversi rapporti e studi di agenzie umanitarie internazionali e delle Nazioni Unite. L’intero catalogo dei diritti umani fondamentali degli abitanti di Gaza è violato.

Tali politiche “costituiscono una forma di punizione collettiva della popolazione civile”, su cui hanno un impatto sproporzionato, e sono “in violazione del diritto internazionale umanitario e di un’ampia gamma di obbligazioni su Israele secondo il diritto internazionale dei diritti umani” (par.73).
Seppur invocando la fine del blocco (par. 74), lo Special Committee non ha indicato, difettando forse all’uopo il mandato ad esso conferito, alcun seguito al proprio rapporto, né ha suggerito alcuna conseguenza giuridica che dovrebbe scaturire dall’accertamento dell’illegalità delle politiche israeliane.
Eppure, avverso la persistente assenza di cooperazione di Israele con organi ONU e il mancato rispetto delle risoluzioni, lo Special Committee ha invece chiesto al Consiglio di Sicurezza e all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “misure volte a persuadere Israele dell’adempimento delle proprie obbligazioni come Stato Membro”.
Ebbene il rispetto di queste ultime non può essere svincolato dal rispetto delle norme di diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. E’ necessario che la legalità internazionale sia fatta rispettare.
Sarà, dunque, tale rapporto capace di suscitare una reazione tra i membri dell’Assemblea Generale, che pure lo ha commissionato, o sarà solo un’altra prova scritta in un processo che la comunità internazionale non vorrà mai celebrare contro Israele?

*Dottorando in Diritti Umani dell’Universitá di Valencia (Spagna) e collaboratore del Centro Palestinese per i Diritti Umani di Gaza

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