di Lorenzo Trombetta
I quotidiani governativi siriani ignoravano ieri mattina la notizia dell’inasprimento delle sanzioni occidentali contro il regime di Damasco, culminate con la richiesta congiunta rivolta da Washington, Londra, Parigi e Berlino al presidente Bashar al Assad di dimettersi, e davano invece ampio risalto ai bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza. Sempre ieri, mentre in Siria migliaia di persone tornavano in strada per il ventiquattresimo venerdì consecutivo di proteste, la tv di stato di Damasco mandava in onda immagini delle città siriane «tranquille», delle «vittime dei raid Nato sulla Libia», e altre «dei bambini uccisi da Israele nei raid aerei sulla Striscia di Gaza».
Con un tempismo sospetto, giovedì sera, alla vigilia in Siria dell’annunciato venerdì di manifestazioni, i Comitati di resistenza popolare legati a Hamas – la cui dirigenza politica è da vent’anni protetta da Damasco – hanno sferrato i loro attacchi nel Negev. Puntuali, sono arrivati nella notte i mortali attacchi aerei di Tel Aviv e, in risposta, altri razzi sono stati sparati dalla Striscia in direzione delle colonie israeliane. «Il nemico sionista non risparmia i civili», era la didascalia a una foto pubblicata ieri sul sito online del quotidiano siriano Tishrin.
Il “nemico” è Israele, guai a chi in Siria se lo dimentica. I “nemici” sono gli alleati di Israele, gli stessi che ora invocano l’uscita di scena di al-Assad e che «vogliono fare della Siria una nuova Libia».
«La nostra sicurezza è anche la sicurezza di Israele », aveva detto settimane fa Rami Maklhuf, influente imprenditore siriano, cugino del raìs.
Parole che al miglior nemico di Damasco, lo stato ebraico, risuonano come un monito fin troppo chiaro.
Dall’altra parte del Medio Oriente, al confine tra Turchia e Iraq, per la prima volta dopo mesi miliziani del Partito dei lavoratori curdi (Pkk) avevano nei giorni scorsi scatenato l’ira di Ankara, uccidendo in un agguato otto militari governativi. Per decenni, fino alla fine degli anni ’90, quando tra i due Paesi – fino a qualche mese fa amici e alleati – non scorreva miele ma veleno, il Pkk di Abdullah Ocalan era stato uno strumento in mano di Damasco da usare in funzione anti-turca. L’aviazione turca ha subito risposto all’azione colpendo decine di obiettivi militari del Pkk sulle montagne del nord-Iraq.
Con un altrettanto sospetto tempismo, l’azione dei miliziani curdi è giunta all’indomani delle dure reazioni di Ankara alla continua repressione di Damasco. La Cnn in lingua turca aveva persino diffuso la notizia – poi smentita dal governo turco – dell’imminente creazione di una zona cuscinetto militare a ridosso del confine tra i due paesi.
Non ci sono prove dirette per collegare gli attacchi del Negev e quelli del sud-est turco con la questione siriana, ma è legittimo ipotizzare che le azioni possano esser state incoraggiate dagli al Assad, che nel corso dei decenni hanno più volte dimostrato di saper giocare su più scenari a seconda delle necessità.
Anche in Libano Damasco ha le sue leve, e non a caso nel maggio scorso, all’indomani della prima importante seduta del Consiglio di sicurezza dell’Onu chiamato a valutare la possibilità di una risoluzione di condanna della repressione in corso, un attentato dinamitardo aveva colpito una pattuglia italiana dell’Unifil, missione militare delle Nazioni Unite.
Nel frattempo, mentre migliaia di persone continuano a sfidare il fuoco di agenti e militari siriani, Ankara ha fatto ieri un passo indietro, dicendo di non esser ancora pronta a chiedere le dimissioni di al Assad. «Aspettiamo – ha detto una fonte governativa – che l’opposizione siriana si unisca e che lanci un appello collettivo, come in Egitto e in Libia».