La storia di Tali Fahima
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La storia di Tali Fahima

E’ la prima donna israeliana sotto detenzione amministrativa. Un percorso personale e politico che l’ha portata a vivere nei Territori Palestinesi.

Tali Fahima
Tali Fahima
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8 Luglio 2011 - 11.41


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di Giulia Daniele

Non è usuale sedersi in un caffè a Ramallah (Cisgiordania) e conversare con una cittadina ebrea israeliana (almeno così finora è scritto sul suo documento d’identità). Non è usuale incontrare a Ramallah la prima donna ebrea israeliana sotto detenzione amministrativa, ossia senza accuse formali né condanna. Non è usuale ascoltare a Ramallah uno dei rari esempi di travagliati percorsi personali e politici in Palestina/Israele, così come la scelta ultima di una ebrea israeliana di vivere nel cuore dei Territori Occupati Palestinesi.

Lei si chiama Tali Fahima e il suo nome è ormai diventato noto negli anni più recenti in Israele, ma non solo. Cresciuta dalla madre all’interno di una famiglia originaria del Marocco, che ha sempre sostenuto il Likud e il nazionalismo alla base dello Stato ebraico, Tali descrive la sua infanzia ricordando «la nonna che parlava soltanto arabo e, quindi io non potevo invitare i miei amici di scuola a casa. La società israeliana è da sempre dominata dall’elite ashkenazi attraverso cui viene applicato un lavaggio del cervello totale sin dai primi anni di vita. Io, come i miei coetanei, volevo sentirmi parte di quella società, volevo essere come tutti gli altri e così ho lasciato che Israele facesse scomparire ogni legame con la mia appartenenza araba, a partire dalla lingua e dalla cultura».

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Tuttavia, nella primavera del 2004 all’età di ventotto anni questo suo mondo inizia a sgretolarsi, e in particolare quando Tali si imbatte nel documentario Arna’s Children sul progetto teatrale fondato da un’altra straordinaria donna ebrea israeliana Arna Mer Khamis con i bambini del campo profughi di Jenin durante la prima Intifadah. È questo uno dei momenti più significativi che trasformeranno radicalmente la vita di Tali, a partire dalla sfera privata a quella politica e sociale. Da quel momento, infatti, inizia a porsi domande e a far emergere dubbi sul reale significato della politica di occupazione militare israeliana, e soprattutto sugli effetti devastanti della violenta oppressione israeliana nei confronti del popolo palestinese.

Per darsi delle risposte concrete, Tali decide di vedere con i propri occhi ciò che succede dall’altra parte, di conoscere il “nemico” e di fare ciò che è severamente vietato agli israeliani, ossia entrare nei Territori Occupati Palestinesi. Inizia così un nuovo percorso in una delle realtà più drammatiche della West Bank come quella del campo profughi di Jenin, dove incontra uno dei protagonisti del gruppo dei bambini di Arna, Zakaria Zubeidi, l’unico che è sopravvissuto alla violenza della seconda Intifadah e che nel frattempo è divenuto capo locale della Brigata dei Martiri di al-Aqsa (nonché uno dei principali ricercati da Israele). La sua scelta coraggiosa di conoscere e di lavorare con il cosiddetto “Altro” ha come principale conseguenza il suo primo arresto nel marzo 2004, e dopo mesi di detenzione amministrativa, nel dicembre dello stesso anno viene incarcerata con l’accusa di collaborazionismo con il nemico, trasmissione di informazioni al nemico, contatti con agenti stranieri, detenzione illegale di armi e sostegno ad organizzazioni terroristiche.

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A seguito dell’esperienza formativa più rilevante della sua vita (come lei stessa definisce), Tali viene rilasciata nel gennaio 2007 e si trasferisce prima nel villaggio palestinese di Ar’ara in Galilea, e poi nei primi mesi del 2011 decide di abbandonare Israele per provare a vivere nel cuore della West Bank. Questa scelta così densa di significati sia a livello politico quanto personale nasce dalla riflessione che giorno dopo giorno l’occupazione militare israeliana disintegra sempre più non soltanto la realtà quotidiana palestinese, bensì inasprisce le questioni interne allo Stato ebraico. Secondo Tali Fahima è arrivato quindi il momento di prendere una posizione netta: «o uno sceglie di stare dalla parte dei Palestinesi, e allora rinuncia alla propria cittadinanza, alla vita confortevole che si può condurre in Israele, oppure continui la tua esistenza in una società razzista come è quella sionista. Non ci sono più vie di mezzo. Infatti come posso criticare l’ideologia sionista se continuo a vivere in quel mondo?». Dichiarandosi una rifugiata politica, ora Tali sta aspettando la risposta dall’Autorità palestinese riguardo la sua domanda di asilo; nel caso in cui ciò non avvenisse lascerà anche la West Bank. Oltre alla sua testimonianza politica di voler far parte integrante della società palestinese, Tali ha recentemente deciso di convertirsi all’Islam, in seguito alla sua forte convinzione di deterioramento della religione ebraica presente oggi in Israele sempre più legata alla logica sionista che logora l’intero paese.

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Se Ramallah è stata scelta come luogo fisico e simbolico per iniziare una nuova vita da una donna come Tali Fahima, forse potrà diventare anche meno inusuale incontrare altre e altri ebrei israeliani in grado di mettere in discussione in modo radicale la politica sionista e le sue implicazioni non soltanto sugli oppressi, i Palestinesi, ma anche su chi è parte integrante dell’oppressore, ossia la stessa popolazione israeliana. Così come testimoniano la storia e le parole di Tali, storicamente la terra di Palestina è stata e continua tuttora ad essere un crocevia di differenti popoli, culture, religioni, lingue: questa rimane l’unica vera via di uscita dall’attuale impasse di odio e discriminazioni.

*Giulia Daniele – Dottoranda Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa)/University of Exeter

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