Libano, la sfida del sistema elettorale
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Libano, la sfida del sistema elettorale

L’ennesimo capitolo della contorta politica libanese potrebbe aprirsi con l’adozione di una nuova legge elettorale prevista dal neonato governo Miqati.

Cresce la tensione nel paese
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28 Giugno 2011 - 10.49


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di Giorgia Grifoni

Primavera araba, rivoluzioni, dittatori che cadono o resistono: niente di tutto ciò accade in Libano, dove una strana democrazia regna sovrana – crisi politiche, occupazioni straniere e guerre civili a parte- da quasi un secolo. Ma, come tutto quello che concerne questo staterello di quattro milioni di anime, anche la sua democrazia è unica: è legata alle 18 confessioni religiose che lo popolano, pesante eredità del mandato francese che ne ha deciso le sorti all’inizio del secolo scorso. L’ennesimo capitolo della contorta politica libanese potrebbe aprirsi con l’adozione di una nuova legge elettorale prevista dal neonato governo Miqati. In cosa consisterà ancora non si sa, ma le parole “rappresentazione proporzionale” non fanno certo presagire una stagione tranquilla.

Il bipolarismo non è una tendenza tutta occidentale: anche il Libano lo adotta. Con maxicoalizioni intricate che cambiano come cambia il vento, o meglio, come cambiano le condizioni regionali. Le coalizioni stesse prendono curiosamente il nome del giorno in cui si sono ufficialmente riunite e formate. C’è quella del 14 Marzo per i cosiddetti filo-occidentali, che annoverano tra le loro fila i sunniti del Movimento del futuro, guidati dal figlio del presidente del consiglio Rafiq Hariri assassinato a Beirut nel 2005, la “sinistra democratica” e vari gruppi cristiani maroniti, retaggi delle milizie falangiste della lunga guerra civile che ha insanguinato il paese per 15 anni (1975-90). Una coalizione filo-occidentale, sostenuta da Stati Uniti e Arabia Saudita. E c’è quella dell’8 Marzo, guidata dal movimento sciita Hezbollah, con l’aggiunta di un partito sciita Amal, di partiti filo-siriani e di altri cristiani di varie confessioni, tra cui spicca il maronita Michel Aoun, anch’egli ben noto retaggio della guerra civile libanese. Dulcis in fundo ci sono i drusi di Walid Jumblatt, che nelle ultime elezioni legislative, quelle del 2009, figuravano tra le fila del 14 marzo. A gennaio 2011 sono improvvisamente passati all’8 marzo, facendo cadere il governo di Saad Hariri la cui coalizione aveva vinto le consultazioni.

Sembra complicato, ma basta mettersi in un’altra ottica. Perché il Libano non ha la destra, o la sinistra come la intendiamo noi. Ha i maroniti, i drusi, gli sciiti e le altre 15 confessioni a cui fare riferimento. In base ad una «geniale» idea della laica Francia il Libano avrebbe dovuto governarsi secondo una ripartizione confessionale dei poteri. Ai maroniti, la comunità cristiana più numerosa negli anni ‘20, toccò la presidenza della Repubblica e la guida dell’esercito. Ai musulmani sunniti, la presidenza del consiglio. Agli sciiti, quella del Parlamento. E via così, secondo il peso demografico delle altre confessioni. Dopo varie crisi politiche e un paio di guerre civili, l’ultima delle quali costata la vita a 150.000 persone, in Libano non è cambiato niente. O quasi. Gli accordi di Ta’if, che hanno posto fine alla guerra, hanno decretato la seguente composizione: 128 deputati, ripartiti equamente tra musulmani e cristiani e, all’interno della religione, tra le differenti confessioni in base al peso demografico.

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E qui la storia si complica, perché le quote confessionali sono ripartite nelle varie circoscrizioni, in molte delle quali gli abitanti professano più di un credo. L’unicità del Libano sta anche nel fatto che l’ultimo censimento risale al 1932 quindi, ai giorni nostri, le quote confessionali risultano completamente sballate: i cristiani ora rappresentano circa il 30% della popolazione, a causa di emigrazioni e cali demografici. I musulmani sono cresciuti di un terzo e tra loro spicca la comunità sciita. Ma comunque vada, in Parlamento devono sedere 64 cristiani e 64 musulmani. Non si discute.

Tra le decine di leggi elettorali che il Libano ha adottato durante la sua esistenza, sono due quelle importanti. La prima è quella del 1960, che riconosce 26 kaza, o circoscrizioni elettorali, ed è quella ri-adottata nelle ultime elezioni. La seconda risale al 2000, quando la Siria occupava il Libano e il governo filo-siriano aveva deciso di dividere il paese in 14 macro-circoscrizioni. Con la vittoria del fronte anti-siriano –odierno 14 Marzo- alle elezioni del 2005, è stata reintrodotta quella del 1960 con alcune modifiche. Nello specifico, grandi o piccole circoscrizioni fanno la differenza. In alcune di esse, come Beirut 3, i seggi sono ripartiti tra molte comunità. Altre circoscrizioni, più uniformi nel credo religioso e meno popolate, come quella di Bint Jbeil, hanno molto meno peso decisionale.

Gli elettori devono votare sì per i candidati della loro confessione, ma anche per quelli delle altre presenti nella circoscrizione. Ed ecco che in una circoscrizione a maggioranza sunnita come Beirut 3, gli elettori voteranno per i candidati maroniti della coalizione del 14 marzo, non per quelli dell’8 marzo. E se il candidato druso, per assurdo, non prendesse neanche un voto, vincerebbe comunque: perché un seggio gli spetta di diritto. Ali el-Samad, politologo, spiega in un suo articolo come ogni confessione cerchi di adottare la legge elettorale che gli garantisca una maggiore rappresentatività: “ Per i cristiani, la piccola circoscrizione offre la possibilità di eleggere i propri deputati e di marginalizzare così l’intervento della comunità musulmana. Per quanto riguarda i musulmani, essi sono presenti in quasi tutte le regioni e, grazie alla loro superiorità demografica, sono favorevoli sia alla piccola circoscrizione (i sunniti), che alla circoscrizione elettorale unica in tutto il territorio(gli sciiti)”.

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Tutto questo è ovviamente condizionato dai giochi di potere esistenti. “Dagli accordi di Ta’if –continua el-Samad- il Libano è stato sotto il controllo siriano. I codici elettorali adottati in quel periodo avevano come obiettivo quello di sostenere ed eleggere i candidati lealisti appartenenti al clan pro-siriano. La legge detta Ghazi Kanaan (capo dei servizi segreti siriani in Libano), promulgata nel 1996 in vista delle elezioni legislative di agosto 2000, aveva un solo obiettivo: la consolidazione della presenza siriana in Libano attraverso l’elezione dei suoi deputati e il tentativo di eliminare l’opposizione in maggioranza maronita. Quindi il Libano fu tagliuzzato in 14 circoscrizioni territoriali che non rispettavano né la realtà politica, né le logiche geografiche e sociali”. Con la vittoria del fronte anti-siriano alle elezioni del 2005, si è tornati alla vecchia legge del 1960, che divide il territorio in circoscrizioni più piccole e dà la possibilità alla minoranza cristiana di rappresentare i suoi elettori.

Come sarà la nuova legge elettorale, non è ancora stato chiarito dal governo Miqati. Vista la composizione del governo, con 19 ministri su 30 appartenenti al blocco dell’”8 marzo”, e con il movimento di Aoun che ha stracciato, alle ultime due elezioni, i partiti maroniti legati alla coalizione del “14 marzo”, gli scenari non sono facili da prevedere. Forse si avrà un allargamento delle circoscrizioni, o forse un’abolizione di esse, dato che gli sciiti sono favorevoli ad una maggiore coesione nazionale piuttosto che a un sistema a vantaggio di antichi equilibri. Che ormai non esistono più.

“Anche abolire solamente le quote confessionali-spiega Moe Ali Nayel, 28 anni, giornalista libanese- non produrrebbe un sistema più giusto, perché un Parlamento non confessionale basato sulla distribuzione geografica di seggi che vige ora continuerà a rappresentare poco certe regioni e troppo le altre. Quelle che eleggono più deputati, insomma. Se uno che vive a Bint Jbeil sentisse che il sistema corrente lo discrimina perché il suo voto conta meno di uno dello Shuf, come potrebbe cambiare la sua situazione se le quote confessionali fossero abbandonate in Parlamento ma comunque gli stessi distretti votassero lo stesso numero di deputati?” Si dovrebbero riformare le circoscrizioni e abolire il sistema confessionale, quindi. E magari si potrebbe votare nel luogo di residenza invece che in quello di origine della propria famiglia. Certo è che, in questa maniera, gli sciiti riuscirebbero ad eleggere gran parte dei deputati. Ed Hezbollah ne uscirebbe vincitore.

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È questo, forse, quello che assomiglia di più al concetto di “rappresentazione proporzionale”. Un concetto espresso anche dal movimento anti-settario libanese , nato in rete sulla scia della primavera araba, che manifesta da mesi nelle strade del Libano perché venga abolito il sistema comunitario-confessionale accusato di sostenere una classe politica corrotta. “Purtroppo alcune personalità religiose-continua Moe Ali- stanno screditando il sistema laico auspicato da questo movimento. Dicono che i cristiani non avranno più rappresentazione né diritti, o che la religione scomparirà. Non sono molto ottimista riguardo questo movimento, anche perché alcuni partiti settari che si dichiarano laici stanno cercando di pilotarlo, e sono sorte anche le prime divergenze tra gli organizzatori”.

Il problema, ora, è il seguente: la legge elettorale del 2008 ha stabilito che dal 2013 potranno votare anche i libanesi residenti all’estero. Che secondo le stime, si aggirano tra i 12 e i 15 milioni di persone, perché per essere cittadino libanese bisogna essere nati da padre libanese. “Tutto quello che bisogna fare- spiega Angie Nassar su Now Lebanon- è presentarsi all’ambasciata o al consolato libanese del paese di residenza con un valido documento di identità. Se non si riesce a registrarsi di persona, si può anche inviare la documentazione via mail. E la scadenza è il 31 dicembre 2012”. Quella dei libanesi all’estero è una vera e propria diaspora, composta principalmente da cristiani maroniti e sciiti: in alcuni paesi, come quelli degli Sud America o negli Stati Uniti, i cittadini emigrati sono il doppio di quelli rimasti in patria. Forse la prossima battaglia per il Libano si giocherà in Brasile.

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