Quel legame profondo tra Papa Francesco e il mondo carcerario parlava il linguaggio dell’autenticità e della compassione. A testimoniarlo, con emozione, è Monsignor Benoni Ambarus, vescovo delegato alla carità e alle carceri, che negli anni ha condiviso con il Pontefice l’impegno costante accanto ai detenuti.
“Pochi giorni prima di morire, Francesco si è trascinato fino a Regina Coeli. Non aveva più forze, ma con la sua presenza ha voluto urlare al mondo che non possiamo abbandonare chi vive dietro le sbarre”, racconta Ambarus. E aggiunge un dettaglio significativo: “I suoi ultimi averi? Li ha donati a loro: 200 mila euro, usciti dal suo conto personale”. Un gesto silenzioso, lontano dai riflettori, che vale più di tante parole. “Quando gli chiesi un aiuto economico, mi disse che non c’erano più fondi, ma che avrebbe trovato qualcosa nel suo conto. Così ha fatto”.
Il silenzio delle istituzioni
Il rapporto con i detenuti non era episodico, ma quotidiano, vissuto fino in fondo anche nei momenti più duri. “Quando si parlava di carcere, lo vedevo soffrire. Era affranto”, ricorda il vescovo. Papa Francesco aveva compiuto gesti forti: aveva lavato i piedi ai carcerati, aveva aperto per loro la Porta Santa di Rebibbia – un evento unico, secondo solo a quello di San Pietro – e aveva lanciato un appello preciso: “uno sconto di pena, anche simbolico, di un mese o due”. Ma nulla è arrivato.
“Neanche questo è arrivato dalle istituzioni. Il mio bilancio non è positivo”, ammette Ambarus. “Una grande tristezza ha avvolto i detenuti quando si sono resi conto che nessuno ha fatto nulla, nemmeno per credere nella loro capacità di rimettersi in piedi”.
La speranza che nasce dalla presenza
L’impegno del Papa non si è esaurito con i grandi gesti. “Abbiamo trasformato quell’evento in un laboratorio di speranza. Due volte al mese cinquanta persone entrano in carcere per celebrare la Messa con i detenuti. Ma prima c’è un percorso: serve comprendere che un penitenziario non è uno zoo”.
Al termine di ogni Messa, segue un momento di confronto e riflessione “su come rimboccarsi le maniche”. Per Ambarus è un punto cruciale: “Occorre esserci, durante la detenzione e dopo”.
“Un carcerato mi ha detto che nessuno era mai andato a trovarlo. Mi ha fatto male. Molti camminano scalzi perché non hanno scarpe. Lo Stato dà il vitto, ma non il resto. Dobbiamo ricordarci che sono fratelli e sorelle, non fantasmi chiusi a chiave”.
Il vescovo chiude con un ricordo struggente: “I detenuti in lui vedevano un padre. Mi hanno affidato un fiore e una lettera da posare sulla sua tomba. Quel seme di speranza che ha piantato, ora tocca a noi farlo crescere”.
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