No, non si può fare un bilancio del pontificato di Francesco. Non lo si può fare perché lo faremo noi. Il papa della prossimità ha cominciato subito a chiederci di entrare nel bilancio che si farà del suo pontificato quando si è presentato dicendo “cari fratelli e sorelle, buona sera”.
Il bilancio di questo pontificato dunque non può essere fatto decifrando la scossa bergogliana, ma vedendone e calcolandone gli effetti e questi effetti sono quelli che vedremo dipanarsi di qui in avanti.
Quel “buona sera”, pronunciato senza indossare la mantellina rossa, il colore degli imperatori dell’antica Roma, ma solo la sua veste bianca, ha inaugurato il pontificato della prossimità. Una prossimità che lo avrebbe portato a rinunciare agli ori, ai simboli sfarzosi, per dire che il Vangelo non è un inno alla prosperità, come teorizzato da alcuni teologi statunitensi ( un vangelo tutto nuovo), ma inno alla fratellanza, all’amicizia. Amicizia sociale, certamente, perché nella visione di Francesco il tutto è superiore alla parte, ma anche amicizia gratuita, perché nella sua visione ciò che conta è avviare processi, non gestire spazi. Non siamo qui per gestire cittadelle, conquiste, territori, privilegi, ma per avviare processi nella storia. Nella sua visione tutto questo non si impone, ma si costruisce nella tensione polare, le polarità in contrasto che non vanno risolte, ma governate portando il confronto sempre ad un livello più alto, ma senza pretendere di risolverlo per sempre.
Il papa della prossimità e quindi della fratellanza è stato il papa di un papato in uscita. Mai si era visto un vescovo di Roma uscire dal Vaticano per andare, ogni Giovedì Santo, in occasione della memoria dell’ultima cena. E dove andava? Dai carcerati, o dai migranti forzati. La memoria dell’ultima cena non era più in San Pietro, la lavanda dei piedi non era più officiata con dodici chierici, ma fuori, nel mondo, nei luoghi della tempesta, cioè tra gli scartati, tra gli esclusi. E’ lì che Francesco andava a portare avanti il processo più importante per il suo pontificato, l’abbattimento dei muri, degli steccati, delle isole di disperazione che riteniamo di poter tagliare fuori dal nostro orizzonte. Se questo, il riportare nel mondo gli esclusi, i negletti, è stato il processo fisico più evidente del suo pontificato, anche quello di abbattere i muri tra credenti e tra credenti e secolarizzati è stato teologico, pastorale, umano, fisico e teorico, comunque costante, incessante.
Qui è importante fare due citazioni che segnano e caratterizzano il suo pontificato, dandogli una cifra che varrà per sempre, qualunque sviluppo ci sarà sulla cattedra di Pietro nei tempi a venire. Ecco il primo brano da citare, sul rapporto tra i credenti, le sue parole all’incontro interreligioso di Singapore: “ Una delle cose che più mi ha colpito di voi giovani, di voi qui, è la capacità del dialogo interreligioso. E questo è molto importante, perché se voi incominciate a litigare: “La mia religione è più importante della tua…”, “La mia è quella vera, la tua non è vera…”. Dove porta tutto questo? Dove? Qualcuno risponda, dove? [qualcuno risponde: “La distruzione”]. È così. Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono – faccio un paragone – come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”.
È vero questo? C’è un solo Dio, e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini”. Dunque tanti cammini per una meta comune. È una meta comune c’è anche per i credenti e i secolarizzati, almeno gran parte di loro. Lo ha detto in termini che non hanno precedenti per qualità di accettazione dell’altro ad Ajaccio: “ è importante riconoscere una reciproca apertura tra questi due orizzonti: i credenti si aprono con sempre maggiore serenità alla possibilità di vivere la propria fede senza imporla, viverla come lievito nella pasta del mondo e degli ambienti in cui si trovano; e i non credenti o quanti si sono allontanati dalla pratica religiosa non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.
Il papa della prossimità non poteva che lanciare questi ponti decisivi per abbattere muri che ancora ci dividono tra guelfi e ghibellini, teste tonde e teste a punta, invece che “Fratelli tutti”. E’ questo il grande processo che Francesco ha gestito con forza e coraggio, accanto a quello dell’inclusione e dell’amicizia sociale. Il bilancio dunque non lo faranno solo i cardinali, ma anche gli uomini ai quali si è rivolto, gli esclusi, i credenti che seguono un altro cammino, i secolarizzati. E’ anche sulle loro spalle il peso enorme che deriva dalla sua scomparsa; fare il bilancio del suo pontificato. Sapranno, sapremo essere all’altezza di quel che ci ha chiesto di scrivere con lui? La sua parte l’ha fatta, fino all’ultimo giorno, quando ha scritto nel suo messaggio pasquale alla città e al mondo: “Non venga mai meno il principio di umanità come cardine del nostro agire quotidiano”.
Questo principio di umanità è negato ogni giorno in troppi luoghi , in troppe dichiarazioni, in troppi pronunciamenti, ma anche dalla risposta che ognuno darà alla sua richiesta si potrà capire quale sia stato davvero il bilancio del suo pontificato. Di certo un pontificato di forza e visione straordinarie. In ogni caso potremo dire di avere avuto il privilegio di viverlo, di esserne contemporanei.
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