Papa Francesco e le periferie del mondo: una speranza viva radicata tra i poveri e contro ogni guerra

Non pochi hanno osservato che “periferie” è la parola chiave per capire tutto il pontificato di Papa Francesco. Con questo termine Francesco non intendeva proporre progetti, bensì processi: andare, uscire, radicarsi in questi luoghi che sono il vero cuore delle città.

Papa Francesco e le periferie del mondo: una speranza viva radicata tra i poveri e contro ogni guerra
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21 Aprile 2025 - 18.21


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di Antonio Salvati

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Con grande dolore e profonda gratitudine abbiamo appreso la notizia di Papa Francesco, un cristiano autenticamente buono. Insieme abbiamo provato anche un senso di orfananza, seppur sono tantissime le parole preziose che ci ha lasciato per continuare il suo amore per la pace e per i poveri.

Assai arduo è rendere conto adeguatamente in poche battute del Pontificato non breve di Papa Francesco. Nei prossimi giorni seguiranno innumerevoli ricordi, analisi, letture e interpretazioni.

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Non pochi hanno osservato che “periferie” è la parola chiave per capire tutto il pontificato di Papa Francesco. Con questo termine Francesco non intendeva proporre progetti, bensì processi: andare, uscire, radicarsi in questi luoghi che sono il vero cuore delle città. Già da arcivescovo Buenos Aires, si rese conto che le “periferie” non sono soltanto luoghi, ma anche e soprattutto persone, come disse nel suo intervento durante le Congregazioni generali prima dell’ultimo Conclave: «la Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e ad andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria» (9 marzo 2013). Ponendo al centro il tema delle periferie, Francesco non fece altro che riprendere una riflessione di lungo periodo e la pone nella scia della preoccupazione centrale del Concilio Vaticano II: l’evangelizzazione dell’uomo e della donna contemporanei attraverso la condivisione del loro mondo e la simpatia per la loro vita. Non che il papa non sia sensibile ai valori etici, ma afferma il primato dell’andare in periferia e del comunicare il Vangelo.

L’argomento ha appassionato Andrea Riccardi che ne ha fatto oggetto di diverse riflessioni. Nel suo volume Periferie. Crisi e novità per la Chiesa (Milano, Jaca BooK, 2016, pp. 148, € 10,00) ha osservato che «il tema delle periferie è tornato alla ribalta grazie alla predicazione di papa Francesco, ma per la Chiesa non è una novità. Anzi. Nel corso dei secoli, infatti, le periferie sono state luoghi di rigenerazione della Chiesa: pensiamo al monachesimo, alle “periferie umane” di san Francesco d’Assisi, o, più vicino a noi, ai preti operai nella Parigi del secondo dopoguerra, quella del cardinale Suhard, nella Torino del cardinale Pellegrino o nella Roma del cardinale Poletti». Le periferie sono anche provocazioni. Sfide. «Il vuoto di presenza sociale e di comunità che le caratterizza in molte parti del pianeta porta alla polverizzazione della giustizia e della pace. Le periferie sono terre di mafia, di soprusi, di violenza. La Chiesa deve ripensare la sua presenza e il suo annuncio. Ha ancora senso parlare di parrocchia legata al territorio? Come entrare in rapporto con uomini, donne e bambini costretti a vivere in condizioni disumane?».

Le periferie sono un luogo privilegiato della presenza cristiana. I periferici, i poveri e i marginali, sono gli interlocutori primari della Chiesa e della sua azione. Non si tratta soltanto di una scelta di «carità», ma d’una «precisa opzione storico-geografica che ha radici nella storia del cristianesimo. C’è un’intuizione in Francesco da cogliere nella sua peculiarità: il cristianesimo deve rinascere dai mondi periferici e, da qui, arrivare o ritornare al centro. Il papa, che viene dalla megalopoli di Buenos Aires (quasi tre milioni di abitanti e tredici nell’area metropolitana), sa come tanta parte della vita sociale e religiosa si giochi nelle periferie. È un’illusione riassumere tutto nel centro o considerare una collocazione centrale come una realtà che di per sé influenza il resto. Certo, nel mondo delle periferie, la presenza della Chiesa è più debole rispetto alla sua stratificazione istituzionale nei centri storici o nei quartieri con una storia pastorale consolidata». Nella visione di Bergoglio, non si tratta però solo di una questione ecclesiastica, pastorale oppure organizzativa, «bensì della convinzione – come si è detto – che nel mondo contemporaneo tanto si giochi proprio nelle periferie e che questi mondi vadano riportati nel cuore della storia e della Chiesa».

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In altri termini, il cristianesimo deve compiere una «scelta preferenziale» per i periferici e le periferie. È qualcosa che scaturisce dal Vangelo: la cosiddetta scelta della Chiesa per i poveri, che è la sua vera realizzazione storica e geografica. Si potrebbe parlare – sostiene Riccardi – «di una geopolitica evangelica di papa Bergoglio o di una geoteologia, per così dire. Non si tratta di posizioni estemporanee o pragmatiche, ma di qualcosa che viene dal vissuto e dal profondo della Chiesa, a cui il Vaticano II ha dato nuovo vigore proponendo la tematica della Chiesa dei poveri. Va detto che poveri e periferici si identificano e si sovrappongono, ma si deve notare anche che l’uso dell’espressione geografica «periferia», nel linguaggio del papa, ha un suo valore peculiare».

Il discorso di Papa Francesco cade proprio mentre la città è sempre meno una comunità dalla vita e dal destino in comune. Sì, la città diventa uno sterminato scenario urbano e sempre meno una comunità con una storia. I nuovi e grandi centri urbani assorbono le campagne – in Italia questo fenomeno assumerà dimensioni importanti – con i propri insediamenti e funzioni, creando un rapporto tra città e campagna ben diverso da quello realizzato per secoli. Zygmunt Bauman più di altri ha compreso le ricadute del mondo globale sulla vita della città e dei suoi abitanti. Anche lui nota come sia finito il senso della città quale comunità di destino. I mondi di periferia non partecipano o partecipano sempre meno all’identità e al destino della comunità urbana. Al massimo rappresentano essi stessi comunità marginali, talvolta chiuse. In realtà – conclude amaramente Bauman – «le città sono divenute delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione».

Papa Bergoglio non è un uomo che ha girato il mondo, ma ha vissuto con intensità la sua città, Buenos Aires, una tipica megalopoli dell’era globale: lì ha scoperto il dramma delle periferie e il fatto che la città globale diventi sempre più una città di periferici e di periferie. Perché per Papa Francesco in questo momento storico ritiene così attuale radicarsi nelle periferie, che è un processo decisivo proprio perché la tendenza odierna è quella a isolarsi rispetto alle periferie e anche chi ci vive cerca di scappare. In realtà, il Papa coniuga un antico sentire e una nuova percezione. Il cristianesimo nelle sue stagioni migliori e di rinnovamento si è sempre collocato in periferia. Si pensi, ad esempio la Subiaco di Benedetto rispetto a Roma. Tuttavia, Francesco parla dell’oggi, è ovvio che porti la specificità dell’oggi facendo riferimento al 2007 quando abbiamo vissuto una svolta nella globalizzazione, silenziosa ma impattante: la rivoluzione dei confini e delle misure del vivere umano. Infatti, nel 2007 la popolazione delle città ha superato quella delle campagne. Si tratta di un fatto epocale, è la prima volta nella storia. Il problema è “quale città”? In tal senso, Riccardi invita interrogarci tutti su cosa fare. Noi non possiamo – ad esempio – più vivere e agire, anche in politica, come se la Roma di oggi fosse la Roma degli anni Settanta, quando le periferie erano povere ma avevano reti e presenze: oggi le periferie sono abitate da grandi solitudini. Uomini e donne oggi sono soli nelle periferie, ma l’uomo non vive solo e quindi sempre più spesso si sviluppano legami e aggregazioni altri rispetto a quelli di ieri.

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Papa Francesco, parlando ai superiori generali delle comunità religiose, fece un’importante affermazione: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto». Considerazione decisiva ancor meglio precisata quando Bergoglio disse: «Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. Stare in periferia aiuta a vedere e capire meglio, a fare un’analisi più corretta della realtà, rifuggendo dal centralismo e da approcci ideologici».

La passione per le periferie non è solo un orientamento del pontificato di Francesco; non è solo lo spirito evangelico e missionario che promana dal Vaticano II. È qualcosa – spiega Riccardi – «che i cristiani hanno già vissuto nella loro storia. Si tratta di quell’”esodo” del cristianesimo dai suoi quadri costituiti, che ha caratterizzato varie stagioni della sua storia e che oggi si ripresenta come una prospettiva e una domanda. La passione è anche capacità di farsi interrogare dalla presenza degli “altri”, di coloro che sono, per storia, estranei (si pensi ai fedeli di altre religioni come i musulmani) o distaccati dal cristianesimo». Le periferie del XXI secolo interpellano le Chiese; sono «una chiamata» – direbbe ancora oggi Madeleine Delbrêl.

Per Bergoglio i problemi locali non sono disgiunti dai grandi scenari internazionali, dalla sensibilità per il processo multilaterale. In altri termini, la rigenerazione della Chiesa e del vivere cristiano parte proprio dalla passione per le periferie e per i periferici, anzi dalla riscoperta del gioioso compito di vivere e comunicare il Vangelo in periferia. L’impegno per la pace in Ucraina, per Gaza scaturisce proprio dalla consapevolezza la guerra deturpa l’anima dei popoli che la fanno o la subiscono, anche di quelli che si difendono. La storia, soprattutto quella recente, insegna che i Paesi che vi sono trascinati ne escono deteriorati, inaspriti, regrediti, degenerati. Per i cristiani contemporanei si tratta di un terreno impraticabile: «la guerra è sempre fratricida, nemica della vita umana, di ogni essere vivente e della natura». Gli Stati hanno preferito andare in ordine sparso senza la necessaria solidarietà globale. Il pensiero di Bergoglio ha fatto breccia sui cattolici più avvertiti sui destini del mondo. In piena sintonia con Papa Francesco, Mario Giro – che con la Comunità di Sant’Egidio ha rivestito con coraggio il ruolo di mediatore in diversi conflitti del recente passato – è profondamente convinto «che le guerre non risolvono i contrasti o le crisi internazionali come hanno insegnato innumerevoli precedenti. Occorre più che mai la trattativa, la mediazione e la pacatezza di giudizio; morte e distruzione non cesseranno senza negoziati e concessioni, purtroppo gravose». Una delle caratteristiche delle guerre e delle crisi acute è – spiega giustamente Giro – \quella di occupare tutti gli spazi di riflessione, devitalizzandoli e cercando di rendere il discorso sul futuro irrilevante. Quando scoppia una guerra il pensiero si paralizza e tutti polemizzano su chi abbia torto e chi ragione. Tale è il metodo mimetico della guerra: distogliere l’attenzione da sé per portarla sui combattenti e sulle loro ragioni. (…) Nel frattempo – mimetizzata – la guerra va avanti e cerca di creare le condizioni (materiali e psicologiche) per il suo protrarsi, fino a diventare permanente. È questo l’ingranaggio micidiale: un mondo sempre in guerra, scosso da scontri, crisi o almeno contrapposizioni».

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Papa Francesco ci ha lasciato in pieno Giubileo della speranza. Nel documento Spes non confundit Francesco ha affermato che «Tutti sperano», invitandoci ad accendere nuove luci di speranza in questo mondo. Hanna Arendt, una grande pensatrice del XX secolo, ha così riflettuto sui profeti di speranza: «anche nei tempi bui, noi possiamo avere il diritto di raggiungere una qualche luce e che essa derivi meno dalle teorie o dai concetti e più da quella fiammo incerta, vacillante e spesso flebile che uomini e donne, nella loro vita e nella loro opera riescono a far brillare, in qualsiasi circostanza, e a diffondere nello spazio e nel tempo a loro concesso su questa terra». Una speranza – per Francesco – da vivere insieme con la consapevolezza del bisogno che ciascuno di noi ha dell’altro, come ebbe a dire il 27 marzo 2020, in piena pandemia, in piazza San Pietro vuota: «L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai».

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