Ciao France'

Ha sempre ribadito di essere “ Vescovo di Roma”- Ogni tanto sgattaiolava da San Pietro per vivere la città che amava.

Ciao France'
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Daniela Amenta Modifica articolo

21 Aprile 2025 - 18.55 Culture


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di Daniela Amenta

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Ribadiva di essere il Vescovo di Roma, la città che oggi 21 aprile compie 2778 anni ma non ha voglia di fare festa. Proprio no. Perché oggi “è tornato alla casa del Padre” Papa Francesco che in 12 anni di pontificato è diventato uno di noi. Quel gesuita venuto dall’Argentina, “la fine del mondo”, che dalla finestra dello studio di San Pietro ci augurava “buon pranzo”, ogni tanto lanciava palloncini e colombe in cielo come segno di speranza, o scendeva in piazza per baciare i bambini e le bambine. “Sinite parvulos venire ad me”. 
La via Crucis privata di Bergoglio si è conclusa a pochi chilometri dai Fori Imperiali e dal Colosseo, in una stanza di Santa Marta dove aveva scelto di abitare, lontano dagli affreschi, i marmi la magnificenza del Vaticano.

Francesco come il santo dei poveri, degli umili, degli invisibili, quello che invece delle scarpette rosse usava le calzature ortopediche, nere, sempre un po’ impolverate, larghe, da marciatore. Francesco che ogni tanto sgattaiolava da San Pietro per andarsi a comprare un paio di occhiali a Borgo Pio, Francesco che durante la pandemia si fece a piedi via del Corso e andò a pregare nella chiesa di San Marcello, dove si trova il Crocifisso miracoloso che nel 1522 venne portato in processione per i quartieri della città perché finisse la “Grande Peste” a Roma».  Francesco solo su quel sagrato ripensato da Bernini, con il passo lento a salire gli scalini voluti da Paolo V in una sera di pioggia del marzo 2020, mentre il Covid mieteva vittime su vittime senza funerali, le salme ammassate sui camion militari come a Bergamo e il fumo dei forni crematori accesi come roghi invincibili. “Da solo non si salva nessuno – disse- da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio».

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Uno di noi, uno che amava i margini e gli emarginati, parlava con gli infermi, telefonava a sconosciuti che gli avevano scritto lettere disperate. Uno che ha ribaltato il concetto di fede misteriosa e intoccabile, per trasformarla in voce concreta di misericordia, di solidarietà, di pace. Un grido, più che una preghiera per il disarmo contro il sangue versato tra Ucraina e Russia, per il martirio dei palestinesi e le lacrime dei familiari degli ostaggi israeliani. Chiamava tutte le sere il parroco della Sacra Famiglia di Gaza, padre Gabriel Romanelli. E in ogni omelia ribadiva che la guerra, le guerre, sono una sconfitta, è una sconfitta distruggere la terra, la meraviglia del creato. Uno che ha lanciato fiori nel mare di Lampedusa per ricordare i migranti, ha citato decine di volte la strage di Cutro, uno che ha lavato i piedi ai detenuti e ha chiesto perdono ai nativi americani e alle vittime dei preti pedofili.

Uno di noi con quella faccia da Stanlio, detestato chi usa il potere per dividere, per accumulare denaro, per colpire gli ultimi e i penultimi del pianeta. Insopportabile per la Curia che si arricchita con lo Ior, che a una croce di legno preferisce paramenti cuciti con l’oro, i perenni ipocriti che surfano tra vizi privati e privilegi ma che si scandalizzano se un Papa dice che la Chiesa è di tutti, dei gay e delle lesbiche, dei peccatori, e che i sacerdoti devono “puzzare come i pastori tra le greggi”. Uno di noi, tanto che a piangerlo oggi, in questa Settimana Santa dove non resuscita neppure la speranza, sono soprattutto i non credenti, i perplessi, i laici, gli atei. Tutti coloro che hanno intravisto in quell’uomo che oramai parlava a fatica una possibilità di luce nel buio di questo millennio luttuoso, lugubre, feroce.

Uno di noi a bordo di una vecchia Fiat, che portava un mazzolino di fiori alla Vergine nella Basilica di Santa Maria Maggiore, interrompendo ogni cerimoniale. Uno che ha chiesto al suo Elemosiniere, il cardinale Konrad Krajewski, di riattivare la corrente elettrica a dispetto dei sigilli e della legge, la corrente staccata nel palazzo occupato dello SpinTime, a Roma, dove abitano 500 persone, molti rifugiati, tantissimi bambini. Vite umane, famiglie che non hanno un posto dove andare, gente che fatica a sopravvivere. E il Papa mandava viveri, perfino medici. “E se ci fanno la multa, pazienza, pagheremo”.  
Come uno di noi, come fanno i volontari della Caritas, migliaia di pasti garantiti ogni giorno, buste con la spesa a disposizione di chi non ce la fa. Quello che ha voluto le docce per i clochard che stazionano dalle parti del Vaticano, quello che amava il mare ma l’ultima volta l’ha visto nel 1975, quello che ha abbracciato i genitori di una bimba morta di leucemia all’ospedale Gemelli e ha pianto con loro chiedendo a Dio come fare per consolarli. Come si allevia il dolore, come si celebra la vita quando la sorte maledetta si porta via gli innocenti. Uno de noantri, oltre Tevere, tanto che le parrocchie, soprattutto quelle delle periferie hanno scampanato a morto, quei rintocchi lunghi, lugubri, a ricordarci che Bergoglio ci ha lasciato nel Lunedì dell’Angelo, il giorno del compleanno di Roma, una città che l’ha amato come uno di famiglia. Come uno di noi. Ciao France’.

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