di Antonio Salvati
Ci sono cose da fare ogni giorno: lavarsi, studiare, giocare, preparare la tavola a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte: chiudere gli occhi, dormire, avere sogni da sognare, orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio la guerra.
Gianni Rodari, Promemoria
pubblicata ne Il secondo libro delle filastrocche da Einaudi nel 1985
Da oltre tre anni, dall’invasione russa dell’Ucraina, la guerra è entrata prepotentemente nelle nostre case. Dopo l’iniziale forte sgomento sono seguiti rassegnazione, distacco, senso di irrilevanza. La prevalente narrazione disumanizzante della guerra ci spinge sempre più a considerare normale la morte delle vite altrui, anche se in presenza di decine, centinaia e migliaia di vittime. Ma non ci si può abituare. Uccidere – sostiene Andrea Riccardi – è sempre una bestemmia contro l’uomo, fatto a immagine di Dio. Ma – potremmo dire – ancor più suona come bestemmia quanto accaduto domenica scorsa, nella celebrazione delle Palme, nella città di Sumy, in Ucraina, dove, per un attacco missilistico russo, sono morte 32 persone, fra cui due bambini, e circa 120 sono state ferite, tra cui 10 bambini. I missili lanciati da Mosca hanno colpito vittime che andavano in chiesa nella mattina della solennità delle Palme, quest’anno festeggiata nella stessa data dai cristiani d’Occidente e d’Oriente che, per una coincidenza di calendari, celebrano la Pasqua insieme il 20 aprile. Compreso, il mondo ortodosso che include il patriarcato di Mosca. Tutto questo mentre le forze israeliane nella notte di domenica scorsa hanno bombardato l’ospedale al-Ahli di Gaza City, noto anche come Ospedale battista. Un bambino ricoverato per un trauma cranico è deceduto per l’interruzione delle cure. Per Israele la consueta giustificazione: la struttura era utilizzata come centro di comando per pianificare attacchi.
Secondo l’UNICEF, dall’inizio dei bombardamenti, sono morti più di 14.500 bambini palestinesi. Più dei bambini uccisi in quattro anni di guerre. 25.000 bambini feriti a Gaza, dove c’è il più alto numero di bambini amputati al mondo, relativo agli abitanti. 17.000 soli, senza famiglie. Un milione di bambini sfollati. Vien da chiedersi che male hanno fatto i bambini di Gaza? Anche se fossero tutti figli dei terroristi (il che non è vero), Elie Wiesel dice che «i figli degli assassini non sono assassini, ma bambini». Al 24 marzo 2025, in Ucraina sono stati uccisi 604 bambini e quasi 2000 feriti. Nella guerra in Sudan, c’è un popolo di rifugiati bambini. Sui quattro milioni, che hanno lasciato il paese, la metà sono bambini. La metà di chi resta soffre di insicurezza alimentare (25 milioni): nei campi 4 bambini su 10.000 muoiono di malnutrizione. ll sangue dei bambini grida l’orrore della guerra e implora pace presto e subito! Ma non si trova il modo per fare pace, tanto sono arrugginiti il dialogo e la diplomazia.
Riteniamo ovvia la morte di tanti bambini, di intere popolazioni, viste non come vittime bisognose di protezione, bensì come minacce esistenziali. Quando oggi si parla di “vita” non si può ignorare –spiega Donatella Di Cesare – questa «svolta epocale impressa dalla logica bellicistica, svolta che accelera e acuisce un andamento già emerso prima con chiarezza. Come in un brutto film, da dimenticare in fretta, abbiamo assistito, freddi e imperturbabili, a innumerevoli perdite». Il pensiero va anche alle tante vite spezzate di migranti inghiottiti dal mare, innocenti torturati nei lager, donne e bambini lasciati morire nei deserti, anziani calpestati come rifiuti e scorie. Si è imposta così una «visione ignominiosa della vita, quella degli altri più altri: la superfluità. Ci sono altri più altri, le cui vite appaiono talmente superflue da essere già votate alla perdita. Dovessero soccombere, non meriterebbero il nostro lutto. Noi infatti non le piangiamo, non versiamo una lacrima, non avvertiamo più neppure un tremito fugace di afflizione».
Giustamente alcuni giorni fa Luigi Manconi ha rievocato quella “autorità delle vittime” di cui scriveva decenni fa il teologo tedesco Johann Baptist Metz, scomparso nel 2019, che dedicò alla riflessione su Auschwitz gran parte della sua vita di studioso. È necessario stare dalla parte delle vittime, e solo dalla parte di tutte le vittime, sottraendosi alla logica degli schieramenti per evitare di precipitare nella logica della vendetta che chiama vendetta. Stare dalla parte delle vittime significa anche – per dirla con Manconi – optare per un impegno più grande e più gravoso rispetto alla decisione di «scegliere una parte e lì rincantucciarsi e adagiarsi». Pertanto, il dolore degli esseri umani come principio e fine di ogni pensiero politico. Tutto il dolore: quello degli ucraini, quello del pogrom del 7 ottobre, quello dei bambini palestinesi uccisi, quello degli ostaggi nelle mani di Hamas. Niente di astratto o di ideologico. Tutt’altro. Bensì la condivisione della sofferenza.
Ma nel frattempo noi che cosa possiamo fare? La sfida più urgente per ciascuno di noi è resistere. Nel corso dell’Incontro Internazionale per la pace Imaginer la paix, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e tenutosi a Parigi lo scorso settembre, Donatella Di Cesare ha sostenuto che resistere significa non solo criticare la cornice interpretativa della logica bellica in senso ampio, ma anche provare «nel profondo il senso del lutto, del pianto, per ogni vita che si perde. Anche e proprio questo è resistere». Non si tratta di ingenuo buonismo. Un domani «molto prossimo la vita non degna di lutto, quella sacrificabile, potrebbe essere la nostra. Anche noi, malgrado tutto, siamo esposti, anche noi ci riveliamo vulnerabili. Ma la vulnerabilità, lungi dall’essere una privazione, è una risorsa che sottende il legame reciproco. Dal senso della perdita per la vita altrui, dal lutto collettivo per le tante guerre, dovremmo immaginare la pace disegnando una nuova politica della vulnerabilità».
I venti oggi soffiano in senso contrario alla pace. Ma la storia è sempre piena di sorprese!