di Mario De Finis
L’8 Aprile è l’anniversario della Giornata Internazionale dei rom, sinti, camminanti, proclamata dall’Onu, sulla scia del genocidio da loro subito durante la 2° guerra mondiale e della conseguente nascita nel dopoguerra di un movimento identitario del popolo rom.
La diffidenza verso gli zingari in Europa nasce sin dal Medioevo a causa dei loro usi e costumi diversi; si protrae nel Sacro Romano Impero, con la riforma protestante; ed ancora nel 17° secolo, con accuse che andavano dalla stregoneria, allo spionaggio, al brigantaggio; e subendo pene severissime, sino alla pena di morte.
Se con l’illuminismo la situazione migliora leggermente – con l’attenuazione di queste misure e la loro trasformazione in forme di controllo e monitoraggio – già da prima della 2° guerra mondiale si assiste alla schedatura dei popoli rom, sinti e camminanti. Nel 1926 anche in Italia – dove pure la presenza rom risale al 1422! -, si cerca di evitarne la presenza sul territorio nazionale mediante l’epurazione dal territorio, attraverso dedicati impianti normativo-repressivi.
Insomma un po’ dovunque in Europa, sulla base di pregiudizi di lunga data consolidati attraverso i secoli, si è costruito lo stereotipo dello zingaro criminale irrecuperabile, disconoscendo a quel popolo identità, lingua, cultura e struttura sociale; facendone oggetto di discriminazioni, antiziganismo e tentativi di annientamento. Sino all’ideologia nazista e dei suoi alleati che ha portato all’internamento, alla deportazione, al lavoro forzato e, infine, allo sterminio di massa sistematico di rom e sinti – 500 mila persone secondo gli storici – negli anni dal 1933 al 1945. È il c.d. “Samudaripen” o Porrajmos, che in lingua romanes significa letteralmente “tutti uccisi”, cioè genocidio: sterminio di uomini, donne, anziani e bambini considerati asociali e di razza inferiore. Ad Auschwitz-Birkenau vennero deportati oltre 230.000 bambini e bambine da tutta Europa; destinati per lo più alle più atroci sperimentazioni mediche, solo poche decine sono sopravvissuti.
Fino ai giorni nostri in cui – nell’immaginario alimentato dai media – il rom è l’immigrato, nomade e criminale, che ruba e invade le periferie della società: e quindi discriminato e perseguito
La memoria dell’8 Aprile, e di queste vessazioni offre quindi lo spunto per alcune considerazioni sul presente e sul futuro dei rom.
Anzitutto numeriche. In Italia, secondo il Consiglio d’Europa, i rom, sinti e camminati presenti vanno dalle 110.00 alle 170.000 unità, e costituiscono lo 0,25% della popolazione (una tra le percentuali più basse in Europa). Di questi circa 70.000 hanno la cittadinanza italiana; mentre tra quelli “stranieri” almeno il 50% vive in Italia da più di 20 anni. Inoltre il 55% ha meno di 18 anni.
Quindi una piccolissima minoranza, fatta soprattutto di bambini e giovanissimi.
Alla luce di questi dati, ripensando alla loro storia costellata di pregiudizi, contrasti ed esclusione da parte delle popolazioni ospitanti, viene da riflettere quanto siano inopportune e pericolose – magari rispetto a singoli fatti di cronaca – le recenti derive semplificatorie, recriminatorie e giustizialiste nei loro confronti, capri espiatori di quella caccia ai fantasmi sociali figlia dell’ignoranza.
Prima di esprimere parole di disprezzo – che poi diventano atteggiamenti violenti – bisognerebbe infatti anzitutto conoscere i loro reali livelli di istruzione e di disoccupazione, di aspettativa di vita e mortalità infantile, di situazione abitativa e tasso di disoccupazione, di accesso ai servizi sociali, sanitari e di welfare, di reale grado di integrazione: tutti al di sotto delle medie di un Paese civile.
A volte, proprio per il consolidato pregiudizio frutto di ignoranza, i rom che pure vivono in case, in condominii non vengono riconosciute come persone e cittadini!
Papa Francesco ha detto in differenti occasioni nel 2014 e nel 2019: “Gli zingari a volte sono visti con ostilità e sospetto, quindi con disprezzo. Ma i veri cittadini di seconda classe sono quelli che – con l’aggettivo dispregiativo che crea distanze, con il chiacchiericcio o con altre cose – scartano la gente: questa non è civiltà”.
Sarebbe molto più proficuo che la classe politica e la società civile lavorassero insieme per abbattere le proprie barriere mentali a favore di una cultura dell’incontro con il mondo rom, in cui conoscere e scambiarsi l’un l’altro storie, lingua, cultura, presenza, tradizioni, diritti, tramandati da millenni nella quotidianità. E quindi rispettarsi reciprocamente. Ad esempio si interrogassero su come garantire il diritto allo studio di queste poche migliaia di minori, magari con interventi di sostegno e supporto scolastico nei quartieri a più alta fragilità sociale, in collaborazione con le scuole e le agenzie sociali.
Migliorare il percorso scolastico e la socializzazione di questi giovanissimi al di fuori del contesto di precarietà abitativa o di dimensione familiare, consentirebbe di contrastarne effìcacemente l’isolamento e l’abbandono scolastico, con ricadute eccellenti sulle prospettive di studio e sull’ inserimento lavorativo.
Sarebbe un modo intelligente di costruire una nuova tenuta della collettività, utile davvero a tutti. Peraltro la storia degli ultimi decenni mostra che i rom e i sinti non sono un corpo estraneo o esotico, ma una “galassia di minoranze”, molte delle quali fanno parte a pieno titolo della società italiana (in cui sono radicati in tante realtà locali) e hanno contribuito a costruirla
Un popolo che non ha mai avuto capi, sempre in cammino, con una cultura senza muri. Soprattutto l’unico popolo che non ha mai fatto guerra a un altro popolo: un dato misconosciuto e su cui riflettere seriamente nel nostro tempo segnato da continui e diffusi venti di guerra.