Fede e identità cattolica in Italia: il convegno sul futuro della Chiesa tra individualismo e nuove prospettive

Il convegno a San Giovanni in Laterano ha discusso il rapporto tra italiani e fede, evidenziando individualismo religioso, crisi d’identità cattolica e necessità di nuove prospettive spirituali.

Fede e identità cattolica in Italia: il convegno sul futuro della Chiesa tra individualismo e nuove prospettive
San Giovanni in Laterano a Roma
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1 Aprile 2025 - 09.38


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di Antonio Salvati

La ricerca del Censis Italiani, fede e Chiesa, pubblicata alla fine del 2024, ha suscitato, com’era prevedibile, un ampio dibattito. Si avverte tra i cattolici sempre meno l’esigenza dell’esperienza comunitaria e – come spiega Giulio De Rita, curatore dell’indagine – si rileva una dimensione sempre più personalistica della fede, che riguarda soprattutto i cattolici non praticanti che preferiscono vivere la propria vita interiore da soli, al limite condividendola con la famiglia o con pochi amici.

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italiani praticano poco la chiesa, le funzioni, i riti; conoscono poco la Scrittura e la cultura cattolica in generale; seguono poco le vicende ecclesiastiche verso le quali hanno anche una certa diffidenza, che però quasi mai si traduce in ostilità. La tradizionale “morale cattolica” poi ha ormai perso i suoi connotati di “legge di Dio”, per diventare semmai – come è scritto nella ricerca – una serie di consigli sul buon vivere e sul fare del bene, da gestire in autonomia, individualmente; senza nessuna connessione con il trascendente. Gli italiani che si definiscono cattolici sono il 71,1% della popolazione — di cui il 15,3% praticante, il 20,9% “non praticante” e il 34,9% dichiara di partecipare solo occasionalmente alle attività della Chiesa —, ma dall’altro questo numero scende al 58,3% nella fascia 18-34 anni e il 56,1% di coloro che si definiscono cattolici non frequentano o frequentano poco la Chiesa perché vivono «interiormente» la fede. Pertanto, se si vuol definire tale appartenenza in modo “prestazionale”, allora i cattolici sono tutto sommato una minoranza.

Ma – sottolinea Giulio De Rita – se il parametro dell’appartenenza è il “riconoscersi”, il voler continuare ad appartenere ad una comunità, senza frequentarla con continuità, senza rispettarne le regole e nutrendo anche una certa diffidenza sul modo in cui viene gestita da chi ha incarichi di responsabilità, allora i cattolici sono tanti. E tanti di essi appartengono a quella cosiddetta “zona grigia”, il né bianco né nero, che nel caso della Chiesa italiana non è una nuova declinazione della società liquida, ma un riposizionamento individuale, in uno spazio ampio e inclusivo, dai confini volutamente non ben definiti.

I datti della ricerca sono stati l’oggetto di un interessantissimo dibattito svoltosi sabato scorso, davanti ad un foltissimo pubblico, nella basilica di San Giovanni in Laterano. “La responsabilità della speranza e il lavoro dello spirito” era il titolo dell’evento nel quale hanno partecipato prestigiosi relatori, da Giuseppe De Rita a Andrea Riccardi, da Massimo Cacciari a padre Antonio Spadaro e a don Fabio Rosini. Con la presenza del cardinale vicario Baldassare Reina che in qualità di padrone di casa nel suo saluto iniziale ha invitato «noi cristiani a domandarci se i nostri luoghi non risultino inospitali». 

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Non è la prima volta che ci si interroga su quanto siano ancora cattolici gli italiani, quale sia il loro “livello di cattolicità”. Il nostro paese possiede una cultura ancora fortemente intrisa di simboli religiosi. Giulio De Rita lo ha spiegato bene attraverso il gesto del segno della croce che esprime il legame di tanti con il trascendente che è ancora molto forte. Un gesto che esprime una radice profonda di tradizione e di rispetto. Un qualcosa che fa parte del mio sentire anche nel senso che non c’è niente che ne ha preso il posto. La gente entra in chiesa, magari casualmente, e si fa il segno della croce. Oppure lo si fa quando ci si rivolge a Dio in un momento di emozione o di paura molto forte, quando abbiamo bisogno di aiuto. Non è solo un gesto scaramantico (come fanno alcuni calciatori)

Pur consapevoli che non si può più essere presenza maggioritaria, i cattolici continuano a riflettere su come uscire dall’attuale sensazione di incertezza ed irrilevanza. Qualcuno coltiva l’illusione di un ritorno al passato, mentre qualcun altro immagina una fuga in avanti fatta di un minoritario ricompattamento dei “pochi ma buoni”. Due tentazioni – per Giuseppe De Rita – di per sé comprensibili, «ma che, intrecciandosi e rafforzandosi a vicenda, rischiano di far perdere una grande occasione di incisiva presenza del pensiero cattolico, un’opportunità che sarebbe davvero un peccato perdere».

Del resto, la chiesa negli ultimi decenni ha scelto di mobilitare le diverse energie collettive esistenti nel Paese. Ossia di coniugare la realtà di fede con lo spirito dello sviluppo sociale. Basta pensare alla Populorum Progressio di Paolo VI del ’65 e alla Promozione Umana del Primo Convegno ecclesiale del ’76 quando attraverso la lezione dei vescovi Poletti e Bartoletti, la chiesa degli anni ’70, passò «dall’aut-aut all’et-et, per cui ad esempio l’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme. Se non esistessero, la nostra comunità ecclesiale non avrebbe senso alcuno, se non quello di pregare». 

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Si può dire che, in fondo, la cultura del mondo cattolico ha condiviso, lungo alcuni decenni, la crescita e la voglia di crescere della società, quasi in silenzioso rispecchiamento tra crescita umana e sviluppo del Paese. Una tensione a crescere che si è nel tempo affievolita. Si è dovuto prendere atto che, sia nella realtà ecclesiale che in quella sociale, si è venuta di fatto – per Giuseppe De Rita – formando «una ambigua “zona grigia”, alimentata dalle propensioni al vivere di presente; tendente all’individualismo, al soggettivismo; una zona grigia segnata dalla tendenza al tralasciare, al disimpegno (non vado a votare e non vado a Messa)».

 Il lavoro dello spirito, la politica come professione/vocazione, tanto esaltato da Massimo Cacciari, ci porta a riconoscere che molti dei problemi del nostro Paese, hanno origine proprio in un deficit di vocazione, una carenza di fini. La tanta politica con poca professione/vocazione è anche lo specchio di una società sempre più incapace di guardare oltre. Per Cacciari siamo di fronte a una sfida enorme: il dominio dell’uomo tecnico e dell’homo oeconomicus sull’homo politicus. Serve un’alleanza tra pensanti. E devono farlo rapidamente, credenti e non credenti per diventare segno di contraddizione. Anche la vera politica è trascendente. Indica sempre dei fini. Pertanto, tutti insieme per contrastare il “paradigma tecnocratico”, per dirla con Papa Francesco, nel quale siamo oggi, volenti o no, tutti immersi.

Secondo padre Antonio Spadaro occorre buttarsi dentro la zona grigia. A Firenze nel 2015, Papa Francesco disse che non siamo più nella cristianità, non abbiamo più il monopolio della cultura e dei valori condivisi, abbiamo perso la regia della produzione culturale. Siamo chiamati a collaborare per mantenere la capacità di sognare nuove versioni del mondo. Bisogna allenarci al linguaggio narrativo, poetico. Il cristianesimo – ha ricordato Spadaro – non ha mai temuto i cambi di paradigma. Siamo in tempo di turbolenza. La zona grigia diviene, pertanto, «come un’opportunità preziosa, una possibilità aperta, una zona da abitare, un campo da animare spiritualmente e il pensiero cattolico può intervenire con discrezione ed incisività facendo leva su quel senso di appartenenza». Non occorre andare in missione. La vita spirituale delle persone non è finita, sta solo prendendo posto fuori dalla chiesa.

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Siamo minati da un pessimismo – per Andrea Riccardi – che ci spinge ad un illusorio cattolicesimo di pochi ma buoni. «Temo che il tema della minoranza creativa rischia di essere un tema consolatorio. Le minoranze in genere non sono creative, ma minoranze. Le élites possono essere creative». Un popolo oggi – dice la ricerca – c’è, ma in forme diverse ed è altrove. Diceva il mistico del 900 Massimo Vannucci che «per amare bisogna conoscere. Noi spesso non conosciamo questo popolo. Anche per via di un approccio vittimista che è tipico di una cultura del declino che è anche la cultura della società. Molti italiani pensano che la chiesa non ha futuro». La perennità è accordata – diceva Carlo Maria Martini – alla chiesa non alle chiese. E aggiungeva: la storia è una cosa seria ed è affidata a noi. De Rita è legato all’immagine della zona grigia.

«A me non piace, ma è vera. Potremmo parlare di credenti non presenti. Cosa resta della cultura cattolica? C’è ancora una giovinezza della chiesa. Non disprezziamo i valori della zona grigia. L’attuale individualismo religioso è figlio del mutamento climatico culturale». Penso alla dissoluzione dei tanti noi e la prospettiva dell’io, citata da Sacks. Il rabbino inglese Jonathan Sacks, recentemente scomparso, ha parlato di un cambiamento climatico-culturale, ovvero il passaggio dal “noi” all’”io”.

A partire dalla fine del secolo scorso, abbiamo vissuto un esodo profondo, spesso impercettibile e comunque drammatico, verso il mondo dell’”io” che ha generato una nuova visione dell’uomo e della donna come individui isolati, immessi in un vuoto relazionale, quasi si trattasse di una condizione di normalità. «Le responsabilità della chiesa si mischiano ad un mondo strutturalmente diverso. Certo c’è stata una mancanza di parola oltre i nostri recinti. Il problema è avere una visione. La ricerca nasce dall’irrilevanza della chiesa. Un paese non rinasce con delle sferzate. Non si può scialare il tempo, sarebbe una grave responsabilità. Non si tratta di una missione cittadina. Qui ci vuole il gusto di entrare in contatto con le domande della zona grigia».

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Non forti sferzate o sommosse. Nell’epoca odierna – dice Byung-Chul Han – non esiste una moltitudine collaborativa e interconnessa in grado di elevarsi a protesta globale, a massa dedita alla rivoluzione. È, piuttosto, «la solitudine a caratterizzare l’attuale regime produttivo di isolati imprenditori di sé stessi». C’è un’altra decisiva riflessione – avverte Riccardi – da fare «e riguarda il povero verso il quale si è avuto spesso un’impostazione istituzionale e poco personale. Un’impostazione assistenziale e non spirituale. Occorre toccare il povero, diceva Papa Francesco. L’incontro con il povero porta all’oltre dell’io, fa trascendere un io autocentrato». Per vivere in mezzo a un popolo grande e complesso, in cui scopriamo le domande vere, c’è bisogno di un atteggiamento e di un sentimento: la simpatia. Per un futuro di speranza occorre – secondo Abramo Heschel l’Homo sympatheticus, capace di passione e di legame. Nel Natale 1942 Bonhoeffer – in un a situazione dura, c’era la guerra – scriveva: «…l’ottimismo non è un modo di vedere la situazione presente ma è una energia vitale, una forza della speranza laddove altri si sono rassegnati: la forza di tener alta la testa anche quando tutto sembra fallire, la forza di reggere i colpi, la forza che non lascia mai il futuro all’avversario ma lo reclama per sé… l’ottimismo come volontà di futuro…». Conoscere per amare, e amare è condividere anche una volontà di futuro per la società e per la chiesa.

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