Papa Francesco: dodici anni di prossimità, discernimento, fratellanza e pace

Ci sono alcune parole che, forse, possono aiutarci a riassumere alcuni tratti di questi dodici anni di pontificato. Provo a sceglierne alcune

Papa Francesco: dodici anni di prossimità, discernimento, fratellanza e pace
Papa Francesco
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

13 Marzo 2025 - 11.20


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Ci sono alcune parole che, forse, possono aiutarci a riassumere alcuni tratti di questi dodici anni di pontificato. Provo a sceglierne alcune, partendo con convinzione dalle prime parole che ci ha rivolto dopo il tradizionale “cari fratelli e sorelle” e cioè “buona sera”. Un papa che si presenta così, augurando “buona sera” ai fedeli accorsi a Piazza San Pietro per conoscerlo, ha presentato un programma, cioè la prossimità. L’ostentata distanza dei papi era stata ridotta da tutti i papi conciliari, con gesti e parole. Ma lui ha preso il piedistallo e lo ha allontanato, e questo ha un valore teologico enorme. La scelta conciliare non va intravista, accennata, ma attuata; il papa, proclamato infallibile da un dogma soggiunto 1870 anni dopo Cristo, non è un semidio, è un uomo, come noi, e da persona educata e gentile saluta dicendo “buona sera”, o “buon giorno”.

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Allora si capisce perché abbia anche detto “chi sono io per giudicare”: lo stesso confessionale, ha detto più volte, “non è una sala tortura” ed i sacramenti sono unguento per le ferite, non un premio per i perfetti. Ecco allora che quel “buona sera” ci ha avvertito; nella Chiesa di Francesco c’è posto per tutti, peccatori e molto peccatori inclusi. Ad una Chiesa presentatasi come maestra più che come madre lui ha indicato da subito la strada opposta: prima madre, poi maestra.

Una parola che certamente segna il suo pontificato è “discernimento”.  Cara ai gesuiti, questa parola la possiamo ritenere bergogliana anche perché lui è il primo papa gesuita della storia. E questo è un tratto fondamentale del suo pontificato, e a mio avviso anche del suo successo. “Questo per la Chiesa è il tempo del discernimento” ha detto più volte. Ma parlandone durante un’udienza dedicata proprio al discernimento non è partito dal discernimento del cristiano, ma da quello che ognuno è chiamato a compiere prima di prendere una decisione: “Discernere è un atto importante che riguarda tutti, perché le scelte sono parte essenziale della vita. Discernere le scelte”. Quindi si è rivolto anche ai fedeli: “Si sceglie un cibo, un vestito, un percorso di studi, un lavoro, una relazione. In tutto questo si concretizza un progetto di vita, e anche si concretizza la nostra relazione con Dio. Il discernimento si presenta come un esercizio di intelligenza, e anche di perizia e anche di volontà, per cogliere il momento favorevole: queste sono le condizioni per operare una buona scelta.

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Ci vuole intelligenza, perizia e anche volontà per fare una buona scelta”. E’ importante prendersi del tempo e restare su questo breve testo, illuminante: “ Il discernimento – come dicevo – comporta una fatica. Secondo la Bibbia, noi non ci troviamo davanti, già impacchettata, la vita che dobbiamo vivere: no! Dobbiamo deciderla continuamente, secondo le realtà che vengono. Dio ci invita a valutare e a scegliere: ci ha creato liberi e vuole che esercitiamo la nostra libertà. Per questo, discernere è impegnativo […] Il discernimento è faticoso ma indispensabile per vivere. Richiede che io mi conosca, che sappia cosa è bene per me qui e ora. Richiede soprattutto un rapporto filiale con Dio. Dio è Padre e non ci lascia soli, è sempre disposto a consigliarci, a incoraggiarci, ad accoglierci. Ma non impone mai il suo volere. Perché? Perché vuole essere amato e non temuto. E anche Dio ci vuole figli non schiavi: figli liberi. E l’amore si può vivere solo nella libertà. Per imparare a vivere si deve imparare ad amare, e per questo è necessario discernere: cosa posso fare adesso, davanti a questa alternativa? Che sia un segnale di più amore, di più maturità nell’amore”. 

Altre parole importanti sono quelle che costruiscono il sintagma “ospedale da campo”. L’ospedale dove adesso si trova a Francesco deve aver ricordato l’ospedale dove per la prima volta, da ragazzo, sperimentò la sensazione di non riuscire a respirare. I malanni polmonari che lo affliggono da allora gli toglievano il respiro e lui chiesa a sua madre “mamma, cosa mi succede”? Lo ripresero per i capelli. E’ da allora che deve aver cominciato a pensare alla Chiesa come “ospedale da campo”. E ora che ne è il primario questo ospedale da campo lo vede aperto a tutti. A tutte le persone fragili, per curare tutti i malanni che contraiamo nelle periferie territoriali ed esistenziali del mondo. Non può esserci una tessera di iscrizione che autorizza l’ingresso nel suo ospedale da campo. E’ fatto per stare accanto a chi sia ferito dalla vita. 

Questo porta al titolo della sua enciclica “Fratelli tutti”. I muri divisori che abbiamo costruito tra noi cadono davanti all’urgenza di assistenza, di cure per le nostre ferita. E’ lì che anche noi possiamo vedere la nostra fratellanza, comune. Nella sua recente visita ad Ajaccio Francesco ha archiviato, nel disinteresse dei più, la barriera che tutti poniamo (con uso improprio dei termini), quella tra laici e credenti. Francesco l’ha tolta di mezzo, dicendo: “ Al contrario, è importante riconoscere una reciproca apertura tra questi due orizzonti: i credenti si aprono con sempre maggiore serenità alla possibilità di vivere la propria fede senza imporla, viverla come lievito nella pasta del mondo e degli ambienti in cui si trovano; e i non credenti o quanti si sono allontanati dalla pratica religiosa non sono estranei alla ricerca della verità, della giustizia e della solidarietà, e spesso, pur non appartenendo ad alcuna religione, portano nel cuore una sete più grande, una domanda di senso che li conduce a interrogare il mistero della vita e a cercare valori fondamentali per il bene comune”.

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Il pensiero del papa che ha intitolato un’enciclica “Fratelli tutti” non può essere divisivo, e come vede questo possibile incontro “fraterno” tra credenti e non ovviamente non divide i credenti, non vede false credenze e quindi una falsa umanità, come ha detto nei termini più chiari incontrando i giovani a Singapore: “ Una delle cose che più mi ha colpito di voi giovani, di voi qui, è la capacità del dialogo interreligioso. E questo è molto importante, perché se voi incominciate a litigare: “La mia religione è più importante della tua…”, “La mia è quella vera, la tua non è vera…”. Dove porta tutto questo? Dove? Qualcuno risponda, dove? [qualcuno risponde: “La distruzione”]. È così. Tutte le religioni sono un cammino per arrivare a Dio. Sono – faccio un paragone – come diverse lingue, diversi idiomi, per arrivare lì. Ma Dio è Dio per tutti. E poiché Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti figli di Dio. “Ma il mio Dio è più importante del tuo!”. È vero questo? C’è un solo Dio, e noi, le nostre religioni sono lingue, cammini per arrivare a Dio. Qualcuno sikh, qualcuno musulmano, qualcuno indù, qualcuno cristiano, ma sono diversi cammini. Understood? Ma per il dialogo interreligioso fra i giovani ci vuole coraggio. Perché l’età giovanile è l’età del coraggio, ma tu puoi avere questo coraggio per fare cose che non ti aiuteranno. Invece puoi avere coraggio per andare avanti e per il dialogo”. 

Ci sono anche parole non sue che sono molto importanti per il suo pontificato e che ce ne spiegano altre, sue: le possiamo trovare, senza gran sforzo, nelle prime righe di uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes: “ Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. Questo sentirsi intimamente solidale con il genere umano ci spiega il suo rapporto con una delle tematiche decisive del nostro tempo, che sta nella parola “migranti”. Lui stesso ha scritto nella sua biografia che la sua storia personale, la sua origine, lo ha spinto a scegliere Lampedusa come luogo del suo primo viaggio apostolico. Ma è in quelle parole il senso della sua chiarezza cristiana. Due volte, parlando di questo, Bergoglio ha usato l’espressione “ naufragio di civiltà”, riferendosi alle antiche civiltà del Mediterraneo, che rischiano di affogare con i migranti se ci si chiude, Il discorso poi può essere declinato in termini di “limiti del possibile”, in termini di “evidenti vantaggi economici”, in termini di “paure”, di uso del nemico esterno, e in molti altri. Ma l’origine di tutto il suo discorso al riguardo è nelle prime righe di Gaudium et Spes. 

Ovviamente c’è anche la parola “pace” a segnare il suo pontificato, una parola che nessuno può ridurre per peso e importanza nel suo vocabolario. E’ importante però ricordare che lui ci ha ricordato, parlando dell’Ucraina, che “chi difende ama”. 

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Si potrebbe continuare a lungo, sono molte altre le parole decisive. Quelle che ha detto, e scritto, sulla famiglie, sui cosiddetti “irregolari”, sono state e seguitano ad essere un capitolo decisivo del suo pontificato, con la famosa battaglia per trovare uno sguardo più attento anche ai famosi “divorziati risposati”. Ma vorrei concludere questa piccola presentazione di un pontificato che potrà ancora sorprenderci dicendo che questo testo è volutamente incompleto non solo per i miei limiti ma perché il suo è un pontificato incompleto. E non è incompleto solo perché non è finito dopo questi dodici anni. E’ incompleto perché Francesco ha chiesto a noi tutti di scegliere l’incompletezza del pensiero. Chiunque creda nel pensiero completo crederà nel pensiero rigido, ma la carne umana, ha detto, è rigida solo dopo la morte.

Ricevendo gli scrittori de La Civiltà Cattolica nel 2017, il papa gli ha raccomandato così un pensiero incompleto: “dovete essere scrittori e giornalisti dal pensiero incompleto, cioè aperto e non chiuso e rigido. La vostra fede apra il vostro pensiero. Fatevi guidare dallo spirito profetico del Vangelo per avere una visione originale, vitale, dinamica, non ovvia. E questo specialmente oggi in un mondo così complesso e pieno di sfide in cui sembra trionfare la “cultura del naufragio” – nutrita di messianismo profano, di mediocrità relativista, di sospetto e di rigidità – e la “cultura del cassonetto”, dove ogni cosa che non funziona come si vorrebbe o che si considera ormai inutile si butta via. La crisi è globale, e quindi è necessario rivolgere il nostro sguardo alle convinzioni culturali dominanti e ai criteri tramite i quali le persone ritengono che qualcosa sia buono o cattivo, desiderabile o no. Solo un pensiero davvero aperto può affrontare la crisi e la comprensione di dove sta andando il mondo, di come si affrontano le crisi più complesse e urgenti, la geopolitica, le sfide dell’economia e la grave crisi umanitaria legata al dramma delle migrazioni, che è il vero nodo politico globale dei nostri giorni. Vi do dunque come figura di riferimento il servo di Dio padre Matteo Ricci (1522-1610).

Egli compose un grande Mappamondo cinese raffigurando i continenti e le isole fino ad allora conosciuti. Così l’amato popolo cinese poteva vedere raffigurate in forma nuova molte terre lontane che venivano nominate e descritte brevemente. Tra queste pure l’Europa e il luogo dove viveva il Papa. Il Mappamondo servì anche a introdurre ancora meglio il popolo cinese alle altre civiltà. Ecco, con i vostri articoli anche voi siete chiamati a comporre un “mappamondo”: mostrate le scoperte recenti, date un nome ai luoghi, fate conoscere qual è il significato della “civiltà” cattolica, ma pure fate conoscere ai cattolici che Dio è al lavoro anche fuori dai confini della Chiesa, in ogni vera “civiltà”, col soffio dello Spirito”.   

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