Il sinodo e la sfida 'pluralista' di Papa Francesco
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Il sinodo e la sfida 'pluralista' di Papa Francesco

Per non dimenticarsi che il futuro esiste, esisterà, occorre non chiudere gli occhi, non tapparsi le orecchie.

Il sinodo e la sfida 'pluralista' di Papa Francesco
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

17 Luglio 2023 - 15.05


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Finalmente un articolo apparso su un quotidiano italiano ci informa su quanto sta avvenendo in Vaticano. Francesco Peloso su “Domani” infatti non ci ha messo al corrente di quale “partito” teologico rappresentino i nuovi cardinali scelti di papa Francesco, quanto salga o quanto scenda il fronte dei “buoni” rispetto ai “cattivi”, ma quanto questo processo di revisione del Sacro Collegio ci indichi il senso profondo del Sinodo che si svolgerà ad ottobre e che ha già prodotto delle novità epocali, che si possono valutare appieno leggendo quanto l’articolo, quasi in esclusiva italiana, ci presenta. E’ indiscutibile i fatti che la costante innovazione cardinalizia è il superamento del criterio delle “sedi cardinalizie”, le grandi diocesi, quasi che il cardinalato sia un premio alla carriera, è l’estensione delle presenza periferiche, le famose periferie di Francesco, periferie in tanti sensi, anche geografico. Ma perché?

L’appuntamento sinodale di ottobre è il punto di arrivo di una serie di sinodi parrocchiali, diocesani, nazionali e continentali che si sono svolti nel corso del tempo e che hanno prodotto raccomandazioni e indicazioni che dalle periferie parrocchiali sono arrivate al livello continentale e sono state recepite nel documento preparatorio del grande evento autunnale. Già in questo percorso c’è qualcosa di nascosto, mai detto. Il sinodo è un evento assembleare, che nella Chiesa cattolica esiste, è consultivo e riguarda solo i vescovi. Sono loro, i vescovi, che si riuniscono sinodalmente e possono presentare delle raccomandazioni che il papa potrà considerare. Ora il meccanismo si capovolge. La Chiesa, tutta, è sinodale, e dalle parrocchie fino alle assemblee di delegati continentali si è riunita per discutere di come voglia essere, inviando suggerimenti e raccomandazioni al Vaticano, che le ha raccolte e riassunte nel documento preparatorio. A ottobre si valuterà nel Sinodo dei Vescovi, che non sarà solo tale, ma esteso a molti invitati, ordinati e laici, maschi e femmine, tutti con diritto di voto e le deliberazioni saranno vincolanti. E, per esempio, cosa si raccomanda? Cosa dice la Chiesa riunita e ascoltata a livello di continenti? L’articolo che appare su Domani squarcia il silenzio rispettato da quasi tutti, almeno in Italia, su questo. E cita per esteso una raccomandazione formulata, ad esempio, dalla Chiesa cattolica neozelandese: “Il ruolo e la condizione delle donne hanno inevitabilmente interessato molte persone. Le aspettative sociali sono cambiate e le donne ricoprono ruoli di leadership chiave sulla scena nazionale e mondiale. Si è sentita fortemente la necessità che la chiesa tenga conto della loro saggezza, del loro intuito e della loro saggezza e della loro capacità di leadership, garantendo loro una partecipazione paritaria nei ruoli decisionali e liturgici”. Il diaconato femminile di cui già c’era certezza nei tempi lontani della Chiesa dei primi padri potrà seguitare ad essere escluso? Ma questo non significa che tutto dovrà essere capito nello stesso modo ovunque. 

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Così quanto si legge sulla nomina più importante di questa stagione, quella del nuovo prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, più che a fare i conti con il passato, che ad alcuni piace e ad altri no, sembra voler voler evitare che ci dimentichi del futuro. E per non dimenticarsi che il futuro esiste, esisterà, occorre non chiudere gli occhi, non tapparsi le orecchie. Quello che adesso la Chiesa deve saper fare. Pena perdere l’appuntamento con se stessa. 

I critici di questo papato ripetono sempre che la Chiesa, questa Chiesa, è stata sempre cattolica, apostolica e romana.  Strano… La Chiesa è sempre stata cattolica, apostolica, ma non romana. Ai suoi inizi era organizzata addirittura su una pentarchia, cioè su cinque epicentri patriarcali di pari valore: Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme e Roma. Dunque neanche Gerusalemme era così autoritaria e totalitaria come Roma. Pur essendo lì nato Gesù non si anteponeva. Solo Roma ha saputo fare tanto: voler imporre un centralismo dogmatico, culturale, disciplinare, per tutto il mondo. 

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Ora, tantissimi secoli dopo, il pluralismo riparte. E riparte da Casa Santa Marta. Dico pluralismo perché questo, il pluralismo, è evidentemente parte del disegno di Dio, che proprio per evitare che il pluralismo venisse negato dall’uomo non ha voluto la torre di Babele. Ma non per evitare che ci capissimo, quanto per farci capire che le diversità sono una ricchezza. Questo oggi è di importanza decisiva.  In un’epoca in cui si vuole imporre una globalizzazione così autoritaria da essere uniformante in tutto il mondo  (al punto da voler imporre le stesse suonerie telefoniche per gli stessi apparecchi a tutti gli esseri umani), il pluralismo riparte dalla Chiesa che per una carente lettura della storia è rimasta la più centralista e verticista che si ricordi. Così si sfida il totalitarismo del Terzo Millennio, quello del paradigma tecnocratico e il centralismo uniformemente della sua cultura, la cultura dello scarto.  

Questa sfida pluralista riconosce ed esalta la diversità delle nostre culture, ed esaltandole le rispetta tutte e tutte le unisce nella loro indispensabile unità nelle diversità iscritte nel disegno divino. Ecco perché non può più essere “romana” nel senso corrente della parola, cioè imposta nella cultura, nelle tradizioni e nella disciplina da un unico centro totalizzante. Ovviamente il discorso è molto più ampio, riguarda anche l’indicazione delle priorità di fede da preservare nel decentramento, e quindi anche quelle che consentirebbero vere forme democratiche nell’epoca della globalizzazione. La Chiesa sinodale, che vuol dire Chiesa nella quale si cammina insieme, non può lasciare nessuno indietro e quindi la sua priorità è disconoscere ogni esclusione e discriminazione. Trasferendo il discorso dal religioso al politico appare un metodo importante anche per la democrazia, che nell’epoca della globalizzazione deve preservare le diversità ma di società indispensabilmente aperte, come la modernità, e non più chiuse, monolitiche, come è stato in passato.     

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