Perché Francesco ha detto che il merito è diventato una legittimazione etica della diseguaglianza
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Perché Francesco ha detto che il merito è diventato una legittimazione etica della diseguaglianza

La scuola accostata al merito può destare perplessità o anche timori: le eccellenze meritano, certo, ma gli altri?

Perché Francesco ha detto che il merito è diventato una legittimazione etica della diseguaglianza
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

27 Ottobre 2022 - 12.36


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Genova, 27 maggio 2017: Papa Francesco invita a fare attenzione, dietro una bella parola -merito- si nasconde un bel problema. Ovviamente il papa parte dal fatto che l’idea di merito è bella, la usa anche con il suo sinonimo evangelico, i talenti. Ma subito si chiede: i talenti di ciascuno di noi sono un dono o un merito? 

Il papa da perplesso diventa preoccupato: “ La tanto osannata meritocrazia, una parola bella perché usa il merito sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza.” Il discorso, il ragionamento va seguito con attenzione perché il punto posto ha una valenza culturale molto forte. Il papa sa bene che dall’altra parte della meritocrazia c’è la raccomandazione, cioè il sistema clientelare, che non è certo quello di cui è andato a tessere le lodi all’Ilva di Genova, dove sta parlando. E così prova a chiarire il suo timore non sui talenti da mettere a frutto, ma sulla meritocrazia: “ il mondo economico leggerà i diversi talenti come meriti. E alla fine quando due bambini nati uno accanto all’altro con talenti diversi andranno in pensione la diseguaglianza si sarà moltiplicata”.

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 Spiegazione autentica, cioè fornita dallo stesso Francesco: “ il povero è considerato un demeritevole e se la povertà è colpa del povero i ricchi sono esentati dall’aiutarli. È la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che le sue disgrazie fossero colpa sua. No, la verità è nella parabola del figliol prodigo: il fratello rimasto a casa pensa che l’altro si sia meritato la sua disgrazia, ma il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci.” 

Il testo è abbastanza noto, narra di uno di due fratelli che chiede la sua parte di eredità al padre, la sperpera e rimane senza sostanze, costretto dal suo datore di lavoro che lo impiega per badare ai maiali a nutrirsi di ghiande. Così torna dal padre, ricordando che da lui tutti i servi avevano pane a sazietà. Ecco, il figliol prodigo non ha avuto il talento, o il merito dell’oculatezza, ma deve nutrirsi di ghiande mentre fa la guardia ai porci? 

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Esiste davvero qualcuno senza meriti? Il ragionamento svolto anni fa da Francesco non mirava chiaramente a tornare alla società dei raccomandati, ma a non fare del merito il sistema che esclude le seconde o ultime file, ma a saper cercare e riconoscere i talenti di tutti, non a escludere!

 Forse già parlare di istruzioni e meriti, non merito, aiuterebbe. Così infatti mi sembra che si capisca meglio perché la scuola accostata al merito può destare perplessità o anche timori: le eccellenze meritano, certo, ma gli altri? Costruire un mondo che esclude sin dalla scuola non esalta i meriti di nessuno, ma giustifica l’esclusione di chi “non merita”. 

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