Il mondo è come la vita di ciascuno di noi, cambia sempre. Ma noi non vogliamo cambiare. Eppure lo vediamo oggi, con la tragedia Ucraina, come cambia il mondo, che non sarà più quello che è stato fino al giorno dell’invasione. Ma questo cambiamento del mondo non è cominciato quel giorno. Il giorno esatto in cui questo cambiamento è cominciato nessuno lo può stabilire con certezza. Ma il giorno dell’invasione resterà come una tappa, una pietra miliare nel nuovo cammino del mondo. E io? Come sono cambiato, se sono cambiato?
Ci hi pensato e mi sono reso conto che nel mio cammino c’è stata una pietra miliare, lontana; il giorno in cui sono fuggito dalla parrocchia dove ero chierichetto. Ho gettato lontano la lunga veste che indossavo, piangendo visto che avrò avuto poco più di dodici anni, e non sono tornato in una chiesa se non per dovere. Quel giorno è emersa dentro di me una scelta: io sono un “mangiapreti”. Ho vissuto per decenni così, fino a quando, quasi simultaneamente, sono entrati nella mia vita tre religiosi, per caso o no tutti e tre gesuiti. Sono padre Paolo Dall’Oglio, papa Francesco e padre Antonio Spadaro. E’ cominciato un processo complesso, laborioso, un processo di conferma e trasformazione. Padre Paolo mi ha scosso per tanti motivi, non posso citarli tutti, direi più di ogni altro per il titolo del suo libro che voleva regalarmi, ma quando partì nel 2013 ancora non era ancora arrivato in libreria: “Collera e luce”. Ho passato ore davanti a quel libro, chiuso, e ho capito che dopo la mia collera la luce non c’era. Oggi quando mi sento incollerito penso a lui, per cercare come posso di capire che devo cercare una luce. Lo devo a lui, lo devo a me.
Intanto era stato eletto Francesco e anche lui, sebbene non lo conosca, ha fatto irruzione dentro di me il giorno in cui, all’inusuale conferenza stampa di inizio pontificato, disse che non avrebbe benedetto i giornalisti presenti perché sapeva che molti non erano credenti. Questo mi lasciò a bocca aperta. “Quest’uomo rispetta il prossimo suo come se stesso, o forse addirittura di più”, dissi a un collega, commosso. L’ho nascosto, ma tremavo. Ho sentito crollare quel trionfalismo che detesto in tante culture e ho visto un chiarore. Poi è arrivato padre Antonio Spadaro, che ho conosciuto per motivi legati al mio incarico di vaticanista in Rai. Leggendolo, o conversando con lui, mi sono imbattuto in tante cose, ma soprattutto nella scoperta che la letteratura allarga la nostra realtà. Ho capito allora che nella nostra realtà ci sono anche i protagonisti di tanti romanzi, che entrano nella nostra vita, portando quelle storie, quei drammi, quegli amori. Dove? Nella nostra storia, nella nostra vita. Tutto questo non mi ha fatto cambiare, ma mi ha fatto capire che devo cambiare. Vivo di collere, ma mi dico, “e la luce”? Vivo di negazioni di ciò che non accetto, ma mi dico che le devo rispettare. Non ci riesco sempre, ma ci provo. Voglio fare un esempio, minuscolo, come me: da vecchio militante della sinistra ho scritto su Facebook che questa sinistra che dice “Nè con Putin né con la Nato” la sento una mia avversaria. E’ così! Ma poi ho pensato al loro possibile: non può entrarci la negazione dell’eterno nemico, è un mito fondante… E ho cambiato il mio testo, definendo quella sinistra non più avversaria, ma “lontana da me”. L’ho fatto perché ho pensato a Cattedrale, un racconto di Raymond Carver, dove un uomo riesce a far vedere una cattedrale a un cieco prendendogli le mani e disegnandola insieme. In un primo momento ho pensato che i ciechi fossero loro, poi ho capito che ero io, ma qualcuno mi stava aiutando a vedere la parete che non gli consente di vedere quel che vedo io. Quella parete non è cattiveria, è l’ideologia. E in un certo senso gli ho voluto bene, pur rifiutando la loro scelta di sottomettere la realtà all’idea. E’ stato così anche per me… Io ho guardato con simpatia ai serbi perché ottenebrato dall’odio per la Nato all’inizio della guerra balcanica: solo arrivando a Sarajevo ho capito, perché la realtà è più forte dell’ idea. Scendendo dal monte Igman ho visto un cetnico invitarmi a sparare una granata su Sarajevo. E’ facile immaginare il mio orrore. Dunque sono cambiato, ma non accetto che non cambino gli altri. Dovrei però prima raccontargli di questo episodio, convincerli che è andata proprio così. La realtà cambia, e ci cambia. Io devo ringraziare la sorte che mi ha fatto attraversare il fronte, cose che quasi mai accadeva in quel caso. Se non lo avessi fatto sarei rimasto com’ero?
Dunque è questo che mi ha reso disponibile alle persone, agli esempi, alle parole che hanno seguitato a cambiarmi. La guerra, vista da vicino e da lontano, ha un meccanismo infernale: è banale, perché sembra dirci che dobbiamo scegliere, a o b? Così facendo tutto diventa semplice, e le nostre certezze si consolidano. Con Francesco invece non ci sono più certezze consolidate, è così. Con lui ho capito che tutto ci sembra tremendamente vero in guerra, nessuno può seguire una guerra senza entrare in relazione profonda con qualcun altro. Sul tram non è così. Ci possono essere anche mille persone intorno a noi su quel tram, ma non entriamo in rapporto neanche con una, il più delle volte. In guerra non è così. E allora si finisce col desiderare di seguirne un’altra, di guerra; perché? Perché siamo esseri relazionali, e lì, sotto le bombe, ogni incontro è una relazione, non è come sul tram. Dunque la guerra, per chi la segue come lavoro, diviene una cura della nostra incapacità, impossibilità. E invece la newsletter de La Civiltà Cattolica di padre Spadaro, guarda caso, si intitola “ Abitare nella possibilità”. Ci ho ripensato, ricordandomi di quando ho seguito alcune guerre per lavoro, e ho capito che il problema è riscoprire il possibile, non fuggire dall’impossibile. La lezione di questi tre religiosi, guarda caso tre gesuiti, ma non so cosa voglia dire questa loro comune appartenenza, mi ha fatto scoprire che il mondo cambia comunque, io no? Io sono destinato a restare me stesso? O posso ambire a uscire da me? Non è che posso, io devo avere questo desiderio, è quello che la sinistra mi sembra aver perso, e insieme dovremmo capire perché.
Perché il mondo cambia comunque. Io devo capire come. Troppo forze mi trattengono, troppe certezze mi impediscono di cercare la luce dopo aver provato la mia indispensabile collera, che non devo perdere, sono un uomo; ma non devo vivere quel che sono come la mia ultima identità. E per cambiare mi serve la luce, la sola che può portarmi a scegliere di allargare la mia realtà, non di stringerla rendendola aderente alla mia immodificabilità.
Così capisco quanta luce mi è stata offerta gratuitamente da questi tre incontri. Vivere la collera e cercare la luce, perché noi dobbiamo recuperare il possibile, non accontentarci del probabile.