ll chilometrico intervento con cui il grande accusatore di Papa Francesco, estimatore di Donald Trump, monsignor Carlo Maria Viganò, ha ritenuto di spiegare tutta la sua rabbia per il decreto pontificio (motu proprio) con cui Francesco ha deciso di limitare l’uso del vecchio messale, quello in latino, si basa sull’idea di “continuità”: la Chiesa non cambia, la Chiesa continua perché ha sempre ragione e quindi non ha motivo di cambiare e le sue espressioni passate sono sempre sante e giuste e quindi una riforma non può cancellarle.
E’ un’idea, interessante.
Che diventa molto interessante però se si legge bene, al quarto o quinto chilometro : “Vogliamo piuttosto parlare dell’uso strumentale del Messale di Paolo VI, questo sì, per parafrasare le parole di Bergoglio- sempre di più caratterizzato da un rifiuto crescente non solo della tradizione liturgica preconciliare, ma di tutti i Concili Ecumenici precedenti al Vaticano II?
D’altra parte, non è proprio Francesco a considerare una minaccia per il Concilio il semplice fatto che si possa celebrare una messa che sconfessa e condanna tutte le deviazioni dottrinali del Vaticano II?”
Dunque stiamo leggendo che ci sono state deviazioni dottrinali nel Vaticano II?
Non è certo Francesco, il papa che vuole attuare in Concilio, a sostenerlo. Dunque chi lo afferma? E’ un punto interessante: la Chiesa che non cambia, che continua perché ha sempre ragione, al Concilio Vaticano II ha preso qualche abbaglio? E dove potrebbe aver sbagliato? Forse ha sbagliato nello scegliere la libertà religiosa, sino ad allora aborrita? La dichiarazione conciliare Nostra Aetate, varata da Paolo VI e da tutti i padre conciliari, cioè i vescovi cattolici del mondo, afferma al riguardo delle altre fedi e religioni: “La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”.
A dire il vero io non trovo piena e assoluta continuità con quanto scrisse Pio IX nella sua enciclica Quanta Cura dove si concorda con la ferma condanna della libertà di coscienza operata dal “Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio [Eadem Encycl. Mirari], cioè “la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo.” A questa tesi la risposta era chiara: “mentre affermano ciò temerariamente, non pensano e non considerano che essi predicano la libertà della perdizione.”
A me sembra che queste parole, in testo più lungo della maratona, possano aiutare a farsi un’idea di che discussione sia in corso.
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