Nel 1968, mentre in Europa il fumo acre dei lacrimogeni si spandeva per le piazze delle principali capitali, sulle ali della protesta studentesca, il mondo della sport si preparava all’appuntamento delle Olimpiadi di Città del Messico, le diciannovesime dell’era moderna. Giochi che si preannunciavano interessantissimi per le condizioni create dall’altura che, si diceva, avrebbe favorito lanci, salti (Bob Beamon su tutti) e corse, e forse anche altro. Ma, come recita una delle tante versioni della legge di Murphy, se una cosa può andare male, state certi che lo farà. E il Messico, nelle settimane che precedevano i Giochi, fu scosso dalla rabbia dei giovani che scesero per le strade a rivendicare una società migliore. Bella richiesta, ma quando in migliaia invasero la Piazza delle tre culture, non trovarono risposte alle loro istanze, ma le pallottole delle forze di sicurezza. Ci furono morti, tanti, ma nessuna fonte ufficiale ne ha mai fornito il numero esatto. Comunque furono centinaia coloro che restarono sulla piazza per non rialzarsi mai più.
Quelle messicane sono state le Olimpiadi forse più caratterizzate politicamente, per quello che le precedette, per quanto accadde. Come quando Tommie Smith e John Carlos scelsero la premiazione dei 200 metri piani per portare davanti agli occhi del mondo la protesta dell’America nera, con i pugni guantati e levati al cielo, nel saluto del Black power.
Ma Mexico city regalò anche altro, questa volta restando nel campo esclusivo dello sport e quel qualcosa fu impersonato da un ragazzo americano, uno spilungone bianco e allampanato, perennemente sorridente, che aveva vinto i durissimi trials a stelle e strisce.
Era Richard Fosbury, per tutti Dick, neosettantenne, che, partendo dalle piste dell’università di Oregon State, avrebbe rivoluzionato il salto in alto.
Di Fosbury, prima delle Olimpiadi, si era sentito parlare quando alcuni media americani avevano scritto che, a Corvallis, dove c’è il campus universitario di Osu, c’era un ragazzo che saltava in modo strano, affrontando l’asticella con una tecnica di cui lui stesso era l’inventore. In mancanza di immagini quelli che in Italia si interessavano di sport e di atletica leggera avevano qualche difficoltà a capire in cosa consistesse la novità introdotta nella disciplina da Fosbury, anche perché erano i tempi in cui in casa nostra lo sport era solo il calcio e , all’inizio dell’estate, il ciclismo, con qualche sortita per la Formula 1.
Tanta curiosità, ma il fatto d’essere preparati non spense affatto la sorpresa quando in pedana scese Forsbury. Il ragazzo di Oregon State University era morfologicamente (alto 1,93 per 83 kg) l’esatto contrario degli altri campioni della specialità, tutti dotati di una sviluppata muscolatura delle gambe, per potere affrontare, con il massimo della spinta dal basso, l’ostacolo nel tradizionale stile ventrale. Ovvero saltare portando la gamba debole (quella non di stacco) verso l’asticella per poi scavalcarla con una rotazione del bacino ed il richiamo dell’altra gamba. Uno stile – che aveva sostituito quello a sforbiciata della preistoria della specialità, che ebbe nella rumena Iolanda Balas la sua ultima cultrice a livello di record del mondo – tecnicamente molto difficile e che richiedeva una grande forza.
Dick Fosbury sostituì la velocità alla forza, non avvicinandosi a passetti all’ostacolo per preparare lo stacco, ma affrontandolo dopo una più lunga rincorsa a mezzaluna per poi saltare di schiena, comunque sempre staccando con una gamba, superando l’asticella ed imponendo alla schiena un movimento ad arco.
Fu come se fosse tornato sulla Terra Copernico e avesse deciso di cimentarsi nell’atletica leggera.
Gli avversari, che pure già conoscevano la tecnica, rimasero affascinati dalle leggerezza dei salti di Fosbury, che alla fine vinse l’oro, ma non riuscì a battere il record mondiale detenuto dal mito della specialità, il sovietico Valery Brumel, forse il massimo interprete del ventrale, che sembrava rendere tutto facile anche grazie all’eleganza nei movimenti.
Ecco, se c’è una cosa che forse ancora oggi, settantenne, crea un po’ di tristezza in Fosbury è il fatto che non riuscì a battere il record di Brumel (ci sarebbe riuscito nel 1971 un altro americano, il capellone Pat Matzdorf, con un salto ventrale). Il Fosbury flop, come era chiamato lo stile introdotto dal ragazzo di Portland (quindi per Oregon State un ‘enfant du pays’) nel volgere di pochi anni spazzò ogni altro stile e, ancora oggi, a quasi cinquant’anni di distanza, resta quello usato da tutti i saltatori, con delle variazioni marginali dettate soprattutto da caratteristiche fisiche degli atleti. Una vittoria per quel ragazzo che stupì tutti, anche per il fatto di usare, nel singolo salto, due differenti tipi di scarpette, di colore diverso. A chi gliene chiese il perché pensando ad una questione di soldi (cioè accordi con chi le produceva) disse con candore: con scarpe diverse salto meglio, girando le spalle agli sbalorditi cronisti.
I settant'anni di Dick Fosbury, visionario rivoluzionario del salto in alto
A città del Messico vinse lo spilungone americano con una nuova tecnica da lui inventata e che ora porta il suo nome
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Diego Minuti Modifica articolo
5 Marzo 2017 - 11.21
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