di Lorenzo Lazzeri
È venerdì 14 marzo. Siamo al Santa Chiara Lab dell’Università di Siena. La sala è gremita, e non solo di volti familiari al mondo accademico. Tra le file, giovani studenti universitari siedono accanto a ex docenti e professionisti. Ci sono anche alcuni studenti del liceo scientifico.
La presenza di un pubblico così variegato evidenzia già la portata del tema: l’intelligenza artificiale e il suo ruolo nell’educazione non sono una questione per soli specialisti.
Mentre la pioggia, fuori, tamburella sui vetri e l’Arno esonda a Sesto, Chiara Mocenni, del circolo culturale Epistéme, apre l’incontro e ricorda il ruolo della Terza Missione dell’università; quella avvicinare il sapere scientifico alla cittadinanza, rompere il muro che spesso divide il mondo accademico dal resto della società. Un tema che si lega perfettamente alla serata, visto che l’AI sta già abbattendo confini tra discipline e metodi di apprendimento. La sovrabbondanza di informazioni ha trasformato il modo in cui apprendiamo, con una accessibilità all’informazione che diviene un’arma a doppio taglio; il sapere è onnipresente, ma il discernimento critico per separare la conoscenza vera dal “rumore” non è innato.
Dopo un breve intervento del moderatore Gregorio Galli, il primo a parlare è il Professor Antonio Rizzo, con un approccio provocatorio e brillante: “Le allucinazioni delle AI? Sono il più grande strumento didattico che abbiamo a disposizione. Perché? Perché costringono lo studente a riflettere.” Continua, affermando che l’AI sta rivoluzionando il nostro rapporto con l’apprendimento, la scoperta e il gioco. Il funzionamento dei modelli linguistici basati su reti neurali, come i Transformer, privilegia la coerenza contestuale rispetto alla veridicità assoluta e questo fenomeno non è troppo distante dalla visione di Wittgenstein sul linguaggio: il significato di una parola dipende dal suo uso, non da una verità intrinseca.
La parola passa al dott. Luca Pasqualini, insegnante di Informatica presso l’Istituto Tito Sarrocchi. Lui mette subito in luce l’ambiguità di questa tecnologia e con il suo tono pacato e misurato, offre una visione prudente: “Dobbiamo stare attenti a non attribuire all’AI un ruolo che non può avere. Un modello generativo non è una fonte di conoscenza, ma è un sistema che produce testi sulla base di probabilità statistiche. Non ‘pensa’, non ‘sa’. Se gli chiedi la capitale della Francia, è altamente probabile che risponda ‘Parigi’, ma non perché lo sappia davvero. È solo la risposta statisticamente più probabile rispetto al contesto.”
La Prof.ssa Giovanna Dimitri interviene, con una sfumatura ancora diversa: “Io credo che questi strumenti possano essere utili, ma solo se il loro utilizzo è accompagnato da una formazione adeguata e vi porto subito un esempio nell’ambito della biomedicina, dove l’AI generativa ha avuto un impatto molto utile nella creazione di immagini diagnostiche sintetiche, che hanno permesso di addestrare sistemi di analisi per individuare patologie rare. Qui non c’è il rischio di allucinazioni, perché il modello è supervisionato da esperti che sanno cosa cercare.”
Il dialogo si snoda attraverso una serie di temi, di riflessioni e le relative implicazioni per il futuro. Luca Pasqualini riconosce la difficoltà di controllare i meccanismi generativi dell’IA, ma ne sottolinea l’opportunità di studio. Anche Giovanna Dimitri coglie questa prospettiva, vedendo sin qui un’occasione per comprendere meglio il funzionamento dei modelli. Antonio Rizzo suggerisce che questi “errori”, allucinazioni”, potrebbero diventare strumenti didattici, trasformando gli studenti in “detective”, spingendoli a indagare la validità delle risposte dell’IA, anziché accettarle passivamente.
Uno dei nodi centrali del dibattito è il ruolo del linguaggio nell’interazione con l’IA e Antonio Rizzo richiama le teorie di Bakhtin e Vygotskij, sostenendo che il significato emerge sempre da un’interazione sociale perché, quando un utente interroga un’AI, si trova a negoziare un significato con un’entità che non condivide intenzioni umane. Strumenti come NotebookLM, in cui è possibile fornire contesto predefinito all’IA, possono ridurre gli errori.
Di contro, Luca Pasqualini esprime una preoccupazione per l’uso eccessivo dell’IA nell’apprendimento, che potrebbe minare lo sviluppo delle competenze di base degli studenti e porta un esempio lampante con il coding, perché affidarsi a strumenti di generazione automatica del codice senza aver mai scritto manualmente un algoritmo crea un divario di competenze difficile da colmare e aggiunge: “Questo è un problema reale. Lo vedo anche con i miei studenti di informatica. Se si affidano troppo ai modelli AI per scrivere codice, finiscono per non sviluppare le competenze di base. È un po’ come usare sempre la calcolatrice senza saper fare un’addizione a mente.” – È un nervo scoperto dell’educazione moderna le nuove generazioni stanno davvero imparando? Il rischio è la perdita di una “sapienza artigianale”.
Antonio Rizzo sottolinea come la didattica debba presiedere all’uso dell’IA, non subirlo. Il paragone con i social media è illuminante perché la mancanza di un’educazione critica nell’uso di queste piattaforme ha portato a conseguenze negative, dal cyberbullismo alla disinformazione. La scuola e l’università non possono ripetere questo errore con l’AI.
Un punto su cui i relatori concordano è che l’IA non deve sostituire il docente, ma potenziarne il ruolo. Antonio Rizzo, infatti, propone un uso creativo dell’IA per simulare dialoghi tra personaggi storici, rendendo la didattica più immersiva; deve essere vista come uno strumento di stimolo per la riflessione, non come un oracolo. NotebookLM, ad esempio, permette di generare punti di vista contrapposti e persino di falsificare le proprie affermazioni, offrendo uno spunto proprio per l’educazione al pensiero critico.
Un ex professore di filosofia, seduto nelle prime file, interviene: “Ma non è la stessa questione che si poneva quando sono nati i primi libri di testo? La conoscenza è sempre mediata: il punto è insegnare a leggere criticamente ogni fonte, sia essa un libro, un sito web o un modello AI.”
Antonio Rizzo coglie al volo lo spunto e risponde: “Esatto! E aggiungo: un buon insegnante oggi dovrebbe insegnare a usare l’AI come strumento di confronto. Per esempio, si può chiedere a un modello di spiegare un concetto in modi diversi e poi verificare se le versioni coincidono o presentano incongruenze.”
Dal pubblico si levano numerose domande, uno solleva una questione scottante, rivolgendosi alla professoressa Dimitri: “Gli strumenti di riconoscimento di testi generati dall’IA sono davvero affidabili? In fondo sono anch’essi AI e possono produrre allucinazioni errori su cui saranno giudicati degli studenti per le tesi”. La Prof.ssa sottolinea subito l’incertezza che circonda questi strumenti e la difficoltà di giudicare con precisione l’origine di un testo e ribadisce che finché la tecnologia non si affina, gli esami orali rimangono il miglior strumento di valutazione.
Un altro studente chiede se l’IA potrà mai sostituire completamente la capacità umana di apprendere. Antonio Rizzo risponde con una provocazione: “Non è la tecnologia a decidere il futuro dell’educazione, ma il modo in cui la utilizziamo. L’AI non deve essere vista come un’entità autonoma, bensì come un ambiente che dobbiamo governare.”
Alcuni studenti del Liceo Scientifico Galilei porta la discussione su un piano più pragmatico con risposte eloquenti alle domande che giungono dal palco: “Quanti insegnanti stanno realmente aggiornando il loro metodo didattico per includere l’IA?”
La risposta è variegata: tra nuovi approcci e coloro che rimangono ancorati ai metodi tradizionali, con un divario tra le diverse esperienze educative che devono essere comprese.
Antonio Rizzo annuisce: “Non solo accettarli, ma capirli. Un tempo si diceva lo stesso della stampa, poi di Internet. Ora è il turno dell’AI. Se la scuola si chiude, rischia di diventare obsoleta, ma se prende l’AI e la usa per stimolare il pensiero critico, allora possiamo davvero cambiare il paradigma educativo.”
In questa sfida, il docente non può più essere solo un trasmettitore di conoscenze, ma deve diventare un “orchestratore” dell’apprendimento, guidando gli studenti in un’esplorazione consapevole del sapere.