di Lucia Maffei*
E siamo ancora all’8 marzo “festa della donna”, rituale sbiadito e banalizzato o occasione per fermarsi a tentare qualche riflessione sulla situazione dell’arcipelago femminile e del movimento femminista? Scegliamo di cogliere l’occasione, prima di tutto per guardarsi intorno. In un mondo impazzito, le donne che vivono in situazioni di oppressione e/o di guerra, continuano con coraggio a lottare, come in Iran o in Afghanistan, o semplicemente a cercare di sopravvivere agli stupri e alle violenze che la guerra regala in più alle donne, oltre alla perdita di figli e mariti immolati al dio feroce. Perché il corpo della donna , come sappiamo, è da sempre bottino di guerra, campo di battaglia di opposti eserciti, troppo spesso accomunati da identica ferocia sulle donne.
E nel nostro occidente impazzito ci guardiamo e non riconosciamo con smarrimento più i contorni di uno spazio difficile da vivere, ma di cui conoscevamo confini e traiettorie. Un Occidente che respinge i migranti che cercano un futuro migliore, riservando, come al solito, una particolare ferocia alle donne, torturate, stuprate nei lager libici e non solo. Un Occidente che restringe i diritti delle donne, delle minoranze, che mette di nuovo, anche nel nostro mondo, al centro della battaglia, il corpo della donna, ancora terreno privilegiato di campagne elettorali antiabortiste con tesi oscurantiste, che abbiamo visto con clamore negli Usa, ma che sicuramente non appartengono solo a quel contesto.
Quindi respingere, restringere, terzo verbo direi oscurare: mettere a tacere la cultura della differenza, del rispetto, della valorizzazione femminile, della rivendicazione. Siamo arrivati alla indicazione di “libri proibiti”, ancora negli USA, ma solo perché lì i fenomeni si manifestano prima e con più solare sfacciataggine. Gli epigoni nostrani si affacciano già qua e là nei contesti territoriali dove governa la destra. Con tutto il codazzo di rifiuto della Woke Culture e della Gender culture che solo chi ha inventato questi termini per fini di propaganda può spiegare a cosa realmente si riferiscano.
Che ci dicono questi segnali? Che dobbiamo, come movimento delle donne, porci alcune domande. Cosa ci ha portato dalle conquiste culturali, politiche e giuridiche degli anni’70 alla situazione di oggi? Quale regressione, ha eroso in Occidente piano piano diritti che sembravano acquisiti, quale cultura patriarcale è riuscita a convincere tante donne a limitare le proprie pretese, la fiducia in sé stesse, ad accettare anche oggi rapporti tossici, fino a morirne? Parafrasando una celebre frase, verrebbe da dire “E’ il capitalsmo bellezza”. Dagli anni’80 in poi il neoliberismo ha piano piano compiuto un’opera di disgregazione della socialità. Reagan, Thatcher e poi, negli anni’90 Berlusconi da noi, sono solo gli esempi più vistosi di protagonisti di un processo di atomizzazione degli individui che dovevano farsi imprenditori di se stessi, competere con gli altri ed emergere in base al “merito”. Ovviamente la discussione sui decenni dall’80 in poi meriterebbero discussioni approfondite, ma sicuramente sono stati alla base di un gigantesco riflusso versoi il privato, contagiando in questo buona parte anche dei partiti di sinistra. Le donne, che nel nostro paese avevano conquistato con le lotte del dopoguerra i loro diritti, contando su organizzazioni di massa come l’Udi, sui gruppi femministi e su un ascolto in Parlamento da parte delle forze popolari, si trovano travolte e spiazzate. Le donne subiscono una regressione della propria condizione sul lavoro, comune a tutti, con la precarizzazione del lavoro, la perdita di valore dei salari, il tentativo di marginalizzare i sindacati ma, al solito, come donne, subiscono arretramenti “specifici” sul piano esistenziale. I tagli alla spesa pubblica penalizzano i servizi sociali e, visto che i lavori di cura di malati, anziani e bambini ricadono ancora sulle spalle delle donne, ecco che il confinamento nel privato e la spinta verso una condizione ancillare si esplica con efficacia. Il fenomeno esiste, ma è molto insidioso e non facilmente riconoscibile. I diritti legislativi conquistati non vengono toccati, ma piuttosto minacciati dall’interno nel loro dispiegamento (basti pensare alla legge 194 nel nostro paese e allo scandaloso numero di medici obiettori). Quello che cambia sono i modelli culturali proposti. L’esplosione delle tv commerciali berlusconiane e non solo, ci portano al riemergere di figure di donne che sono ridotte a corpi da esibire, spacciate come disinibite e finalmente libere di esprimersi. Contemporaneamente vediamo l’emersione in posizioni apicali in politica o nell’ imprenditoria (spesso grazie proprio a quelle politiche di inclusione come le quote rosa ottenute in passato dalle rivendicazioni femminili) singole figure di donne che si spogliano di ogni specificità femminile, per fingere si ricoprire un ruolo neutro nell’esercizio del potere, di fatto accettando e promuovendo lo stereotipo che l’esercizio del potere è cosa da maschi.
Cosa si è perso per strada? Una trasmissione di testimone a nuove generazioni, senz’altro, che invece va recuperata, adoprando le armi tipiche delle donne: la serietà delle analisi e le modalità tipiche della nostra lotta. Per l’analisi dobbiamo riflettere molto sul tema dell’intersezionalità delle discriminazioni che gravano sulle donne, sulle differenze che queste creano anche nelle forme di emarginazione, dall’altro dobbiamo recuperare la socialità delle lotte, riflettere su un concetto di sorellanza che tanto bene ha fatto alle lotte in passato, e come esso si mette in relazione appunto con l’intersezionalità delle oppressioni che rendono le donne, come sempre, uguali e differenti. Ma ce la possiamo fare. L’abbiamo fatto e lo rifaremo.
*Lucia Maffei – Centro cultura delle donne Mara Meoni, Siena